“Una sola cosa il destino non può fare: distruggere i semi che sono finiti nella terra. Prima o poi germoglieranno”
Ieri ho lasciato la Palestina. Questi primi nove mesi del 2016 li ho passati prevalentemente qui e sono stati mesi duri. A gennaio ho assaggiato il freddo gelido di Gaza visitando luoghi che dovrebbero far vergognare e indignare ogni essere umano, ma luoghi in cui, nonostante tutto, la dignità è molto spesso elemento portante della resilienza oltre che della resistenza e dove, se non hanno niente, neanche una stanza per ospitarti, ti offrono comunque tè e sorrisi.
Febbraio, marzo e aprile li ho passati tra Cisgiordania e Gaza con qualche passaggio nella Palestina del “48 e ci sono stati giorni belli e anche bellissimi, e giorni duri. Ma anche i giorni duri sono stati sempre giorni privilegiati rispetto a quelli vissuti dal popolo palestinese. Sono stati pubblicati molti articoli in quel periodo e sono ancora leggibili negli archivi di Nena News, dell’Antidiplomatico e di Comune-info.
In quei mesi ha preso forma concreta il progetto Ibnatu Canaan che poi tra maggio e agosto si è stabilizzato. Il 23 giugno, nella terra che da terra qualunque vicino Jericho diventava “la” terra della futura oasi su cui stavo/stavamo lavorando-sognando è stato piantato il primo albero alla memoria di Fares Odeh. Ma qualcosa, diciamo il destino, tramava nel buio e si sarebbe manifestato in tutta la sua capacità negativa solo più tardi.
A settembre ho vissuto i giorni più duri, quelli in cui la delusione ha macchiato di un nero opaco e soffocante il mio ultimo soggiorno palestinese. Un nero rimasto sempre nel sottofondo delle mie giornate nonostante la presenza di amiche e amici simpatici sia palestinesi che italiani, alcuni di questi venuti apposta per conoscere con me la Palestina. Un nero opaco rimasto in sottofondo anche durante qualche “sfizio” palestinese come la giornata al Mar Morto con Meri, Abdallah, Nadia, Morad e altri amici, o lo sfarzoso matrimonio palestinese in cui non sono mancate risate allegre,
o la cena in casa Laham con ottimo “ousi fi jaja” preparato da Azizeh , ed altri momenti da ricordare di una Palestina vissuta non in veste di militante ma di semplice amica di questo popolo.
Anche in questi momenti quel fondo cupo è stato il mio compagno costante. Perché? non solo per l’infamia continua dei militari occupanti, per le uccisioni quotidiane che non fanno più notizia. Non fa notizia neanche il massacro costante che sta rendendo la Siria un lago di sangue, figuriamoci se può farne lo stillicidio di vite palestinesi per mano dell’esercito più criminale e più coccolato del mondo!
No, quel nero opaco che è stato con me in quest’ultimo periodo di vita palestinese, con punte di dolore acutissimo, era un lutto personale.
Un lutto, sì, perché a settembre si è consumata la morte prematura di Ibnatu Canaan, il progetto al quale avevo dedicato tutte le mie energie e che doveva crescere come una figlia. Il progetto che avrebbe restituito bellezza e armonia , laddove la mano dell’occupante ha portato deserto e degrado. Dove un’oasi avrebbe restituito sacralità alla terra e avrebbe ospitato seminari e laboratori di arte, di storia, di botanica, di recupero della memoria, di cultura, di musica, di tutto ciò che rappresenta l’identità culturale di questo popolo che Israele vuole cancellare.
Non è colpa di nessuno. E’ stato solo il destino.
La realtà si è mostrata piano piano, come un fantasma che agitava un velo con una scritta che si intuiva da un po’, ma ancora non si leggeva bene. Poi quella scritta è apparsa improvvisamente in piena luce e come un violento schiaffo ha detto al progetto in cammino di tornare ad essere sogno. Lo ha cacciato nell’angolo dei sogni proibiti, dei sogni perduti. Dei sogni traditi.
Ibnatu Canaan non esiste più. Ora è tornata una terra qualunque. Gli obiettivi di lavoro politico, culturale, sociale che ne avrebbero fatta la “figlia” amata sono persi. Ora è solo un piccolo appezzamento semidesertico in cui forse nascerà un altro progetto. Forse – se il destino non sarà ancora così perfido – nascerà un progetto simile a quello perduto, sarebbe bello, ma non sarà più il mio.
Forse invece nascerà solo una villetta privata. O forse, forse, chissà….
Torno in Italia con l’amarezza di essere stata tradita dalla realtà. Una realtà che è fatta anche di rigidità culturali, di frustrazioni e di scelte dovute all’infame occupazione militare che ingabbia le anime e i corpi che vogliono libertà. Una realtà che comunque ha schiacciato per sempre il sogno contro cui ha lottato con durezza e, purtroppo, ha vinto.
Altri progetti mi riporteranno in Palestina, altri sogni di bellezza per un popolo che il mondo ha abbandonato sotto le grinfie di Israele e che sta scoppiando e implodendo nello stesso momento.
E Ibna resterà nella teca delle cose belle ma impossibili su cui ogni tanto tornerà la memoria, accarezzandola con un po’ di malinconia, e sorridendo con un filo di tristezza al ricordo di quei giorni magici che le avevano dato il nome.
La vita è dinamica, e il destino arriva come un tornado che combina e scombina ogni cosa! È andata così, zaino in spalle e si riparte.
Una sola cosa il destino non può fare: distruggere i semi che sono finiti nella terra. Prima o poi germoglieranno.
Roma, 7 ottobre 2016