TERRITORIO e IDENTITA’. La Palestina attraverso il suo ambiente naturale.

Ciao, dopo parleremo dell’olivo, ora mi rivolgo a chi segue la rubrica Territorio e identità sull’agenzia di stampa NenaNews, ma anche a chi segue altre rubriche come Cibo e identità e anche a chi non segue rubriche ma si aggiorna su NenaNews, una delle pochissime fonti oneste circa il Medio Oriente e la Palestina in particolare. Nena news è come i fiori … scusate eh, se mi rifaccio al tema di questo blog, cioè “fiori di Palestina” : se non ha acqua non cresce, anzi rischia di brutto. E se Nena si essicca chi ci dice cosa succede in Palestina? Marrazzo? Molinari? I cronisti di Repubblica o del Corriere?

Insomma, se riusciamo a mandare un contributo avremo la possibilità di essere ancora informati. Sennò la vedo dura. Anche se 10 o 20 euro sono pochi, se tutti i ventimila lettori di Nena volessero metterceli si arriverebbe a 200.000 euro o a 400.000. Insomma una bella boccata d’ossigeno con poco sforzo individuale. Poi, chi si schifa di mandare 10 o 20 euro può pure mandarne 100, certo, non avrà molti compagni di bonifico, però lo può fare! Ecco i dati: conto corrente Intestato a: NENA NEWS – Associazione di Promozione SocialeIBAN: IT 43 T 02008 05286 000103061447.  Ed ecco il link completo, annaffiamo NenaNews, dai!! http://l.facebook.com/l.php?u=http%3A%2F%2Fnena-news.it%2Fsostieni-il-lavoro-di-nena-news%2F&h=GAQFS6OQZ&s=1

E ora l’articolo sull’olivo. Scritto un mese e mezzo fa e già pubblicato da Nenanews.

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Olivi plurimillenari dell’orto dei Getzemani. Gerusalemme.

E’ il momento di parlare dell’olivo. E’ il momento in cui la fatica della raccolta si è trasformata in gioia nell’assistere alla mutazione in liquido prezioso e denso di quei milioni di piccole drupe che hanno segnato le civiltà del Mediterraneo.

Forse nessun albero come l’olivo ha visto il passaggio della coltura in cultura e il diventare l’una parte integrante dell’altra.

Nella sua forma originaria, cioè prima dell’antichissimo addomesticamento, l’olivo  si presentava in forma selvatica, tuttora  esistente e comunemente definita “oleastro”, capace di produrre drupe più piccole e più amare dell’olivo domestico.  La sua origine allo stato selvatico è rintracciabile nel Vicino Oriente, da dove si sarebbe estesa in tutte le aree del Mediterraneo.

Il primo addomesticamento sarà ad opera degli agricoltori siriani, ma la leggenda sicuramente più affascinante circa la sua origine  ce la regala la Grecia con uno dei suoi miti. L’olivo sarebbe infatti un regalo di Atena, la dea del sapere e della saggezza. Un regalo che viene preferito al regalo offerto da Poseidone, il dio del mare. Poseidone offriva una fonte di acqua salata e un cavallo da battaglia, quindi un simbolo di guerra. Atena invece offre un simbolo legato al nutrimento, alla terra, alla vita, quindi alla pace. E questo simbolo l’olivo lo porta da sempre. Lo porta ancor oggi perfino in Palestina dove gli olivi palestinesi distrutti dal giorno dell’auto-proclamazione dello Stato di Israele ad oggi pare si aggirino sui 3, forse 4 milioni.

Chiunque abbia avuto a che fare con un oliveto, anche piccolo, può capire il rapporto che s’instaura tra questi alberi e chi li coltiva, e  quindi può capire appieno il dolore provato da chi ha visto mutilare, estirpare o abbattere queste piante che tuttora sono per ogni palestinese il  simbolo dell’attaccamento alla terra e della sua sacralità. L’olivo è stato cantato, illustrato, coltivato, amato e, per quanto possibile, protetto fino a diventare l’albero simbolo per antonomasia della resistenza.

Proprio qui, in Palestina,ci sono esemplari  pluricentenari e millenari, contorti, sofferti, ma bellissimi. Israele quelli ora non li distrugge più. Ha capito che sono una ricchezza e allora ogni tanto, in tutta impunità, ne espianta qualcuno e se lo porta via, oppure ci fa una splendida figura offrendolo in dono a qualche paese straniero, come ad esempio l’olivo centenario che fa bella mostra di sé a Roma, di fronte alle antiche colonne dei fori imperiali, con tanto di tanga in cui si legge l’omaggio di quello Stato  al popolo romano. Ma Israele ha meno di 70 anni e l’olivo donato ne ha molti di più, quindi è stato donato a Roma un albero palestinese probabilmente sottratto a dei fellain che non hanno potuto impedire l’illegale confisca.15942374_10211963817835334_1457769329_n

Ma torniamo all’albero per osservarlo dal  punto di vista botanico ed erboristico.  Sì, erboristico, perché non molti lo sanno, ma l’olivo ha delle ottime proprietà officinali.

Il suo nome scientifico è olea europaea, anche se le sue origini sono asiatiche. Ama il sole e i terreni sciolti, la sua chioma è sempreverde e proprio dalle foglie e dalle gemme si ricavavo rimedi erboristici di grande efficacia per contrastare l’ipotensione. Oltre a tinture madri, a gemmoderivati e a tutto ciò che si può acquistare in erboristeria, una preparazione officinale domestica efficace come ipotensivo ed ipoglicemico è il semplice infuso di foglie giovani. Quindici foglie in un quarto di litro d’acqua bollite per 5 minuti. Ne risulta una bevanda particolarmente amara ma estremamente efficace, utilizzabile anche come cura prolungata in quanto non ha tossicità. Due infusi al giorno aiutano il colesterolo e contrastano diabete ed ipertensione, quest’ultima considerata causa prima di ictus ed infarti.

La Palestina antica, ovvero la terra di Canaan, prima che venisse invasa dagli ebrei guidati da Giosuè, era già ricca di oliveti, tanto che lo stesso Giosuè, secondo la Bibbia, disse al suo popolo, allora ancora  formato da pastori nomadi: “vi ho offerto un paese che non avete coltivato e potete mangiare i frutti di viti e olivi che non avete piantato”.

Ma nulla è eterno e il passaggio di tanti popoli e tanti diversi dominatori su questa terra lo dimostra. L’olivo però resiste e nonostante espianti e distruzioni è ancora un simbolo per quella terra e per ogni palestinese.

Nell’antichità il suo olio è stato usato per scopi sacri oltre che per alimentazione e cura. Ungere un corpo con l’olio d’oliva significava dargli sacralità, essere introdotti in qualche modo nella sfera divina. Questo valeva per gli ebrei, tanto che la Bibbia narra di come Samuele dovrà ungere Davide su indicazione del Signore facendone il suo prescelto. Lo sarà per i cristiani, Gesù Cristo infatti è “l’unto” del Signore come attesta l’attributo nominativo derivante dal greco Kristos, cioè “unto”, ma lo era anche per gli egiziani e per i greci e per romani. Nel VII secolo d.C. anche Maometto parlerà dell’olivo come “l’albero benedetto…..il cui olio illuminerebbe anche se non toccasse fuoco” e lo farà nella surat sulla luce dove si legge che “Dio è la luce dei cieli e della terra….” .

Albero benedetto, simbolo di pace, di rigenerazione e di resistenza, albero che, parafrasando lo storico contemporaneo Fernand Braudel unisce due civiltà del Mediterraneo separatesi nel corso dei millenni per religioni, costumi e bevande, ma unite da quell’originaria coltura dell’olivo che ne ha fatto sorgere la comune civiltà, quella che, per citare un altro storico, non contemporaneo ma di 2500 anni fa, fece “emergere dalla barbarie i popoli del Mediterraneo”. Così infatti scriveva Tucidide nel V secolo a.C.

Le leggende, i miti, l’uso prezioso dei suoi frutti, usati già nella forma selvatica come attesta il più antico ritrovamento, risalente a circa 6.000 anni fa sulle coste dell’antica terra di Canaan, le coste da cui partivano i Fenici con il carico di quel che loro chiamavano “oro liqui9781784530716do”,   tutto questo infatti – per i simboli che viene ad assumere, per le leggi che sono state emanate a sua difesa già 2500 anni prima di Cristo, e per le creazioni letterarie e artistiche – unisce e trasforma la coltura dell’olivo come pianta nella cultura dell’olivo come simbolo identitario di una determinata civiltà.

Non a caso il più grande poeta palestinese, Mahmoud Darwish, intitolerà proprio  “Foglie d’ulivo” la sua prima raccolta di poesie e molti anni dopo definirà il suo sogno di libertà per il popolo palestinese
come un’immagine che sorge da un sasso circondato da due ramoscelli d’olivo.

Patrizia Cecconi
29 Novembre 2016

ODE ALL’AILANTO, odiato anarchico del regno vegetale

Il suo nome, “Ailanthus altissima”, significa albero del paradiso. Così infatti è chiamato  nell’isola Amboyna in Indonesia, quella da cui traggono ispirazione i quadri  naìf di Rousseau le Douanier, il pittore “dell’innocenza arcaica” che dipingeva occhi di tigre tra le lunghe foglie di quest’albero  e  le cui opere si trovano al Musée d’Orsay a Parigi.

Iniziare con un richiamo artistico è d’obbligo perché il povero ailanto in realtà, più che di apprezzamenti  è oggetto di un odio feroce da parte della “corrente botanica ariana” che vorrebbe sterminarlo per la sua crescita rapida e la sua diffusione anarchica, riuscendo a farlo odiare e a farlo sentire un pericoloso clandestino capace di togliere spazio alle piante autoctone di razza pura e origine controllata e garantita.

Qui in Palestina cresce rigoglioso e bello e non è certo lui a rubare la terra, ma qualcuno potrebbe sempre addossare a lui la responsabilità di aver lasciato al popolo palestinese solo qualche chilometro di terra pietrosa rubando quella fertilailanto-sulla-strada-per-hebrone. La realtà è ben diversa, ma di fantasia per giustificare oltre settant’anni di crimini ne è stata usata talmente tanta che un’affermazione del genere non sarebbe troppo diversa da quella di considerare, tanto per fare un esempio, il terrorista Begin un amante della pace e quindi premiarlo con un Nobel. Cosa realmente avvenuta nel 1978.

Tornando all’insolente ailanto, va detto che in campo artistico non solo Rousseau le Douanier lo ha magnificato, ma anche la scrittrice Betty Smith, autrice di “Un albero cresce a Brooklyn”. Dal suo libro, bellissimo,  Elia Kazan trasse l’omonimo film altrettanto bello. L’albero oggetto di libro e film  era proprio lui, l’odiatissimo quanto resistente ailanto. Era lui  l’unico albero che in uno squallido cortile abitato da poverissimi immigrati era riuscito a rompere il cemento e a crescere altissimo trasmettendo alla piccola Francie Nolan, protagonista del romanzo, la forza per riscattarsi dalla miseria e uscire dalla sofferenza così come l’albero del paradiso usciva dal cemento e germogliava rigoglioso nonostante i tentativi di abbatterlo.

Quest’albero fino a un paio di secoli fa se ne stava tranquillo in Estremo Oriente, sua patria natale, poi, dato che poteva nutrire un baco capace di produrre seta, una seta meno preziosa di quella del bombix mori, ma pur sempre una seta, e dato che  era così  bello – in Cina – e di così veloce crescita, a metà 1700 venne importato in Europa e pochi anni dopo in America.

 Ma i gusti cambiano e la moda non risparmia neanche i vegetali! Infatti il povero ailanto, da bellissimo esemplare esotico utilizzato per alberature stradali e per impreziosire i parchi, divenne l’albero odiato che oggi è, perfino qui in Palestina, dove la sua resistenza alle condizioni avverse dovrebbe sintonizzarsi con le condizioni di vita del popolo sotto l’occupazione.

Per dare ubetlemmena parvenza di  razionalità all’odio verso una pianta che rende verdi i terreni resi pietraie dopo il furto d’acqua, si è diffusa anche qui la credenza, smentita dai fatti, che l’ailanto secerne una tossina capace di uccidere le altre piante.  Così, la pianta pioniera che potrebbe essere utilizzata in modo razionale per alberare zone desertificate dal furto idrico, viene spesso percepita come pianta nemica.

Tuttavia, sulla strada che congiunge Gerusalemme a Hebron, diversi esemplari di ailanto fanno bella mostra di sé in alberature stradali, magari sono venuti su da soli, ma ora sono perfettamente integrati ed anche belli: sono diventati palestinesi, come il saber, la jawafa e tanti altri figli verdi della terra naturalizzati da secoli.

Invece che odiarlo e tentare, inutilmente, di estirparlo, quest’albero lo si potrebbe valorizzare e utilizzare come succede in Cina da migliaia di anni, secondo quanto  attestato dal più antico dizionario cinese e da molti antichi testi di medicina che ne propinano l’uso, tuttora valido, per curare problemi diversi, dalle affezioni nervose ai problemi intestinali fino alla cura per la forfora e la caduta dei capelli. Le sue proprietà antielmintiche potrebbero essere utilizzate in modo semplice ed economico nelle zone più povere della striscia di Gaza, laddove l’inquinamento da acque reflue, regalo di Israele, rende intere famiglie vittime di infestazioni da vermi intestinali difficilmente debellabili, mentre con qualche infuso di corteccia raccolta in primavera o in autunno il problema sarebbe risolto. Ed  ecco che l’odiato ailanto,  capace di resistere a 40° senza acqua per lunghi periodi, capace di crescere in terreni sabbiosi e salati, in fessure di rocce e in crepe del cemento, se ben trattato e tenuto sotto un razionale controllo, potrebbe trasformarsi in un vero amico.

La sua corteccia è liscia, le sue lunghe foglie sono composite e imparipennate, formate da numerose coppie di foglioline lanceolate.  Può raggiungere in pochissimi anni i 25 metri di altezza e la sua chioma, decidua, offre  un buon riparo dal sole estivo. I suoi fiori hanno colore giallo dorato che vira in rosso ramato conferendo un aspetto molto bello all’albero nel periodo della fioritura che dura fino a due mesi.  Chissà se tornerà il giorno in cui quest’albero potrà essere nuovamente apprezzato! In fondo non c’è niente di eterno tra i viventi, non lo sono gli imperi, non lgiovanissimo-esemplare-tra-i-ruderi-di-beit-sahouro sono i tiranni, non lo sono neanche le occupazioni militari e forse l’ailanto,  nonostante abbia il “grave difetto” di non essere un bene economico, potrebbe tornare ad essere apprezzato magari proprio a partire dagli usi officinali che la popolazione di Gaza potrebbe farne per contrastare le infestazioni di vermi dovute alla mancanza di acqua potabile e alle conseguenti condizioni igieniche causate dall’assedio israeliano.

Patrizia Cecconi

DOVUNQUE SPUNTA UN SABER…..

“In tutta la Palestina storica, ovunque vedrai spuntare un saber, fino al 1948 c’era un villaggio arabo.” Questo mi disse un giorno un prete cristiano in Palestina.

E’ cominciata così la mia attenzione al fico d’India, il saber appunto, nome scientifico: Opuntia ficus-indica. Famiglia delle Cactacee, genere Opuntia, specie ficus-indica. Originario del Messico e importato nel vecchio continente nel 1493 dagsaber ormi palestinesili spagnoli che devastarono il nuovo mondo appena scoperto.

Il fico d’India portato nel vecchio mondo si ambientò perfettamente nei climi aridi e tuttora vive bene su terreni pietrosi e assolati come se ne trovano in Palestina, ma anche nelle nostre regioni del Sud.

Gli arabi lo usavano, oltre che per i suoi frutti, per segnare i confini tra i diversi fondi e nelle campagne siciliane  quest’uso è ancora abbondantemente presente come lo era nei villaggi palestinesi. E’ proprio per quest’uso che il prete palestinese mi disse che avrei ancora potuto trovare traccia di alcuni degli oltre 400 villaggi rasi al suolo nel “48 dalle appena nate eppur già così “efficienti” forze israeliane!

In Palestina il fico d’India si è immediatamente naturalizzato e da diversi secoli è talmente diffuso che viene comunemente considerato originario di questa terra, in fondo così accogliente che lo lascia crescere ovunque, accettando che venga rappresentato  come un simbolo identitario quasi al pari dell’olivo.

Per esempio non fu mai rimproverato al regista  Franco Zeffirelli di aver preso la grande cantonata di inserire i fichi d’India nei paesaggi del suo “Gesù di Nazareth”, semmai ci si ride sopra!

Saber in arabo significa anche pazienza e mi dicono che il nome probabilmente nasce dalla pazienza necessaria a privare delle migliaia di spine i suoi buonissimi frutti i quali sono ricchi di calcio, fosforo e vitamina C.

I cladodi, cioè i fusti modificati che sostituiscono le foglie nella fotosintesi clorofilliana e che comunemente sono chiamati pale o, erroneamente, foglie, sono ricchi di una sostanza gelatinosa efficacissima contro gli accessi di tosse e in particolare contro la tosse convulsa.  Una volta privati delle spine sono anche buoni da mangiare, sia cotti che crudi e perfino in marmellata. Se cotti, il loro sapore ricorda quello degli asparagi e, oltre al piacere del gusto, va tenuto presente il loro effetto gastroprotettore  e la capacità di ridurre l’assorbimento di grassi e zuccheri aiutando il metabolismo glico-lipidico. I cladodi sono  un cibo ipocalorico ricco di fibre, pectine e mucillagini, tengono sotto controllo i tassi di glucosio e colesterolo nel sangue e favoriscono la digestione.

Il frutto del fico d’India, chiamato anch’esso fico d’India,  è una bacca, all’esterno ha ciuffi di aculei che ne rendono immangiabile la buccia, mentre all’interno ha una p14012205_10210484057642254_174589535_nolpa dolcissima, mucillaginosa e con molti semi ossei ed oltre ad essere di sapore ottimo ha  proprietà antisettiche, emollienti e lassative ed ha una comprovata  capacità di ritardare la crescita delle cellule tumorali. Inoltre è efficace nella cura del diabete, come le sue pale riduce il tasso di colesterolo nel sangue, è efficace nel curare i disturbi gastrointestinali.  Sia le pale che i frutti contengono poi vitamina A, B1, B2, B3 e C.

In particolare, l’alto contenuto di vitamina C ha fatto di questo cibo una delle prime cure contro lo scorbuto per i lunghi viaggi in mare già dalla fine del 1400. Nei frutti, ma soprattutto nelle pale, si trovano poi minerali importanti quali calcio, magnesio, ferro, potassio e rame.

I fiori del fico d’India sono di una rara bellezza. Spuntano sul marg14037596_10210484000560827_54340842_oine del cladodo ed hanno i petali lucidi e solitamente di colore giallo brillante. Fioriscono in questa stagione e dal loro ovario si sviluppa il frutto che maturerà in piena estate. Volendo, i frutti possono essere anche essiccati e conservati per l’inverno mantenendo molte delle proprietà che hanno da freschi, a parte alcune vitamine che vanno perdute durante l’essiccazione.

In Palestina, dove il saber cresce  praticamente ovunque, potrebbe svilupparsi con facilità una produzione, ovviamente biologica, di frutti essiccati e  le donne di alcuni dei villaggi di Gaza particolarmente massacrati dai bombardamenti israeliani e dalla povertà,  hanno preso in considerazione questa opportunità di cui ho parlato loro  proprio in questi giorni. Ora si tratta di lavorarci affinché possa svilupparsi questa nuova attività che produrrebbe insieme piacere per un cibo particolarmente gustoso e salubre e reddito per chi  vorrà farne un nuovo lavoro.

Oltre all’essiccazione del frutto, questa pianta può offrire facile applicazione in campo erboristico poiché il gel contenuto nei cladodi giovani, e ottenibile per semplice centrifuga, può essere consumato in modeste quantità prima dei pasti. Questo gel, legandosi ai cibi, porta ad un effetto che è insieme gastroprotettore, di controllo della massa ponderale, detossicante in quanto facilita il transito intestinale e, infine, come già detto, riduttore dei livelli di colesterolo e di zuccheri nel sangue. Il tutto con semplice ricorso alla natura la quale,  avendo generosamente accolto un figlio nato in un altro continente, si trova arricchita e pronta a condividere questa ricchezza chiedendo solo un po’ di “saber”, stavolta inteso come pazienza, per liberare dalle spine questo suo figlio oggi diventato palestinese.

Patrizia  Cecconi
 

L’ALLORO, o Laurus nobilis

E le braccia divennero rami e Dafne, ormai immobile alberello di alloro, poté sfuggire così all’impetuoso abbraccio di Apollo. Fermi i suoi piedi divenuti radici. Ferme le sue mani divenute foglie, Apollo non poté più possederla.13871957_10210333609961156_352155313_n

Più o meno così Ovidio racconta la metamorfosi della ninfa Dafne per fuggire all’inseguimento del focoso Apollo. Racconto mitologico che sotto lo scalpello del Bernini si trasformerà in uno  splendido quanto angosciante gruppo marmoreo.

Dafne voleva essere salvata sì, ma per seguitare a correre libera tra boschi e ruscelli come aveva sempre fatto, non per essere immobilizzata nella fissità di un’essenza vegetale. Perché dunque bloccare la ninfa  che era sulla sua terra e non bloccare Apollo che la insidiava? Ovidio non ce lo spiega, ci dice solo che l’alloro divenne la pianta sacra allo stesso dio che ne aveva indirettamente provocato la metamorfosi.

Ma l’alloro scavalca il mito e ci racconta una storia che nella terra in cui ha avuto origine seguita a ripetersi. Ma non si ripete come splendida fantasia letteraria che di ninfe, dei, destino e natura crea un insieme che trasforma la tragedia  in poesia. Si ripete solo come tragedia che vede il tentativo di fermare le braccia di chi vorrebbe correre libero nella propria terra, ma ne è impedito da chi quella terra vorrebbe illegittimamente farla propria.

L’alloro, originario dell’areale mediterraneo – Palestina compresa – cresce spontaneo fino a circa 800 metri slm. Nel Medio Oriente è usato da millenni per le sue proprietà officinali. In particolare la città siriana di Aleppo, oggi distrutta dalla guerra, era famosa già dal 2500 a.C. per il sapone ottenuto con olio essenziale di alloro che, a seconda delle proporzioni usate, aveva (ed ha) proprietà antisettiche, antinfiammatorie, curative per eczemi, dermatiti ed acne, nonché proprietà cosmetiche.     13931656_10210336383870502_564853335_o

L’alberello in questione non ha grandi pretese, del resto come tutti gli alberi che sopravvivono in Palestina, ed il suo esteso apparato radicale gli permette di sopportare bene la siccità. Ciò che non sopporta sono invece i ristagni idrici, ma quelli sono abbastanza difficili in questa terra visto che l’acqua finisce in massima parte agli insediamenti illegali ebraici e le colture palestinesi conoscono piuttosto scarsità che non eccedenza  idrica.

Le infiorescenze maschili e femminili di questa pianta dioica appaiono in primavera. Quelle maschili sono particolarmente belle perché il loro colore si fa quasi dorato e brilla tra le chiome verde intenso costituite dalle foglie coriacee, lanceolate ed aromatiche che coprono i rami in tutte le stagioni. Questa caratteristica fa dell’alloro un’essenza molto diffusa anche come ornamentale. L’impollinazione è anemofila e la pianta femminile, una volta impollinata, produce una drupa piccola, nero-violacea da cui si ricava l’olio essenziale per le tinture officinali utili contro i disturbi cutanei e per il sapone di Aleppo.

Anche le foglie, oltre ai frutti, sono ricche di principi attivi e vengono utilizzate per uso interno in decotti e infusi molto efficaci per alleviare dolori dovuti a gastriti e ulcere e per facilitare la guarigione da coliche addominali. Per uso esterno, invece, come rimedio a dolori reumatici, contusioni e distorsioni, oltre che per disturbi cutanei, è preferibile applicare sulla parte interessata la tintura madre ottenuta  dalle drupe.

Nell’antichità, oltre agli usi officinali, l’alloro era utilizzato come simbolo di sapienza e di gloria e infatti una corona fatta con le sue foglie cingeva la testa di poeti, atleti o condottieri considerati particolarmente degni di lode. Lo stesso termine “laureato” deriva dall’essere stato degno di ricevere il lauro.

Per quanto riguarda il suo utilizzo ornamentale, vediamo che molte statue sono cinte da siepi di alloro. In particolare una di queste lega in qualche modo l’Italia alla Palestina, non tanto per i lauri che una volta la circondavano, quanto per il suo significato storico. E’ la statua eretta a Genova alla memoria di un ragazzo che nel 1746  diede il via all’insurrezione lanciando un sasso contro i soldati occupanti. Al suo lancio seguì una fitta sassaiola che costrinse i soldati a ritirarsi. Dell’identità del ragazzo non c’è certezza, ma del suo gesto sì, tanto che in un documento  governativo del 1747 si legge che  la mano che accese il grande incendio, fu quella di un “picciol ragazzo, che dié di piglio ad un sasso lanciandolo contro un ufficiale”. La statua è ancora lì, ormai un po’ nascosta dai palazzi, ma sempre valida a ricordare che una rivolta contro l’occupante è cosa nobile, degna di “allori” anche se Balilla_a_Portoria-cartolina_d'epocascaturita solo da un gesto di spontanea indignazione e non di strategia  politica. Quest’ultima è importante per vincere, ma dipende dalla capacità della leadership di non mandar persi quei sassi.

Quando anche la Palestina sarà finalmente libera, forse in più d’una città, magari tra siepi di alloro, verrà eretto un monumento simile a quello del ragazzo di Genova che secondo lo storico genovese Federico Donaver, rappresenta non un solo eroico ragazzo, ma “un popolo che, giunto al colmo dell’oppressione, spezza le sue catene e rivendica la libertà”.

Le lucide foglie di alloro sarebbero le piante giuste a circondare questi monumenti per ricordare che il diritto alla libertà non può essere cancellato, neanche ricorrendo a poetiche o fantasiose narrazioni che giustificano l’oppressore e immobilizzano il diritto dell’oppresso. Sarebbe il segnale che mai più verrà fermata Dafne, bensì il suo inseguitore. I principi attivi dell’alloro resterebbero gli stessi e gli scultori come il Bernini darebbero vita alle stesse meravigliose opere pur invertendo i soggetti della metamorfosi.

Patrizia Cecconi

IL GELSO… tra muri, leggende e natura

Un’antichissima leggenda racconta che Tisbe e Piramo, due adolescenti babilonesi, belli come lo sono soltanto gli adolescenti innamorati, potevano parlarsi solo attraverso la fessura di un muro che li teneva separati.13819616_10210293065387567_387460903_n

I muri di separazione si sa, sono sempre forieri di tragedie, così come lo sono gli impedimenti alla libertà, e allora i due ragazzi cercarono d’incontrarsi oltre il muro, in un boschetto in cui avrebbero potuto finalmente abbracciarsi ma, per una tragica ironia del destino, questo incontro li portò alla morte.

Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta che gli dei, visti i due corpi abbracciati e privi di vita ai piedi di un gelso, provarono tale pietà che non vollero che il loro sangue inzuppasse inutilmente la terra e lo fecero assorbire dall’albero, il quale ne tinse per sempre i suoi frutti. Secondo la leggenda fu questa metamorfosi a dar vita al gelso nero, nome scientifico Morus nigra, le cui origPierre_Gautherot_-_Pyramus_and_Thisbe,_1799ini sono infatti mediorientali e il cui uso, sia alimentare che officinale, in quelle regioni è antichissimo .

Il gelso bianco invece (nome scientifico Morus alba) proviene dall’Estremo Oriente e fu Marco Polo a scoprirlo nel suo viaggio in Cina verso la fine del 1200, ma solo intorno al 1400 si diffuse in tutta Europa passando per la Sicilia ad opera degli arabi che avevano cominciato a coltivarlo sistematicamente per nutrire i bachi da seta. Entrambi gli alberi producono frutti eduli e nel mese di maggio, in tutti i suq della Palestina, vengono offerti per pochi shekels cestini di carichi di more di gelso bianco mentre, quando il caldo si fa più intenso, cominciano ad arrivare i cestini di more di gelso nero.

Solo la scorsa primavera, per la prima volta, mi sono accorta di quanto sia diffuso l’albero di gelso nel territorio palestinese. Il primo a colpirmi per la sua maestosità – circa 10 metri di diametro e almeno 10 di altezza – è stato quello alla cui ombra ho riposato un po’ mentre andavo alla ricerca dei resti di un villaggio distrutto dagli israeliani nel “48 vicino a Wadi Fukeen. Poi, dopo aver apprezzato questo bellissimo esemplare ed aver visto l’abbondanza di frutti venduti nei suq, ho cominciato a guardarmi meglio intorno ed è successo quel che sempre succede quando gli occhi guardano per vedere: ho scoperto che la Palestina è piena di gelsi, sia bianchi che neri. Sono nei giardini, nelle campagne aperte, nelle campagne coltivate, insomma il gelso è un albero palestinese di cui prima non mi ero accorta. Avevo fatto un po’ come quei turisti che vanno in Terrasanta e non si accorgono della ferocia e dell’illegalità dell’occupazione. In fondo, dipende dall’uso che si fa del proprio sguardo!13672528_10210293062787502_274325431_n

Morus nigra e Morus alba appartengono entrambi alla famiglia delle moracee, sono piante longeve, soprattutto il bianco che può vivere fino a 400 anni. Le foglie – decidue – sono ovate con margine dentato e durante l’estate formano una densa chioma verde scuro. La pianta è monoica, cioè sullo stesso albero porta fiori sia maschili che femminili ed è autofertile, per questo è normale trovare un esemplare carico di frutti anche se isolato. I frutti in realtà, dal punto di vista botanico, sono delle

infruttescenze definibili “falsi frutti” esattamente come le fragole o le more di rovo, perché sono le infiorescenze che si sono gonfiate facendosi succulente, mentre il frutto vero è la parte fibrosa interna. Per usare il termine botanicamente corretto, la mora di gelso si chiama sorosio, è ricca di vitamine C, B1, B2 e K , di Ferro, Potassio e Magnesio. I polifenoli contenuti nella specie nigra hanno funzione antiossidante e quindi contrastano le malattie legate all’invecchiamento cellulare e quelle degenerative del sistema nervoso. In Medio Oriente, nel passato, i frutti venivano essiccati, polverizzati e usati per dolcificare. Ai bianchi si attribuivano proprietà lassative e un’azione antibatterica specifica contro le carie dentali, mentre la radice, preparata in decotto, veniva usata efficacemente contro l’asma bronchiale. La medicina orientale, e successivamente quelle greca e latina, dai frutti del nigra ricavavano un colluttorio contro afte e mal di gola che tuttora si può trovare in farmacia anche se ormai prodotto a livello industriale. Dalla sua radice ricavavano decotti dall’effetto diuretico, ipoglicemizzante e analgesico, mentre le foglie avevano e tuttora hanno vari usi, anche estetici. Sono però sconsigliate a chi soffre di ulcera o gastrite per l’elevato contenuto di tannino. Plinio il Vecchio ne aveva appreso le proprietà e consigliava di mangiare i frutti mescolati a miele, zafferano e mirra contro il mal di gola e i disturbi di stomaco. Anche Dioscoride ne consigliava l’uso, non come cibo però, ma soltanto come rimedio officinale contro ulcere, catarro e mal di gola. Oggi le ricerche scientifiche hanno confermato che le foglie, per i principi attivi che contengono, sono in grado di riequilibrare il metabolismo riducendo il colesterolo nel sangue e, usate in semplice infusione acquosa, hanno un’efficace funzione antidiabetica e ipotensiva. Basta lasciarne una manciata in infusione bollente per dieci minuti in mezzo litro d’acqua e poi bere l’infuso tre volte al giorno prima dei pasti. Come tutte le piante capaci di resistere alle condizioni avverse, anche il gelso cresce bene in Palestina, ama il sole e sopporta sia il gelo che la siccità, solo alle ruspe israeliane non riuscirebbe a sopravvivere, ma le sue radici sono così estese e robuste che anche a quei mostri metallici, ignoranti del bello quanto della giustizia, saprebbe opporre una notevole resistenza.

Patrizia Cecconi

L’ALBERO DI GIUDA

L’albero di cui parliamo oggi richiama la Palestina nel nome comune dovuto a leggende antiche: è il siliquastro, il cui nome scientifico è Cercis siliquastrum e il nome comunerami è albero di Giuda.
Il suo nome scientifico  deriva dalla forma dei suoi frutti che in greco sono detti kerkis, cioè barchetta o spola, e in latino  siliquastrum cioè silique o baccelli. In effetti il siliquastro, o albero di Giuda, appartiene alla famiglia delle fabacee, come il carrubo, già esaminato qualche tempo fa e, come i frutti del  carrubo, anche quelli del siliquastro sono dei baccelli eduli. Ma non lo sa quasi nessuno e quindi restano sull’albero fino a cadere spontaneamente anche un anno dopo la propria maturazione.

Le origini del siliquastro sono in questa zona, tra Asia Minore e sponda sud del Mediterraneo dove cresce spontaneamente  fin verso i  500 metri slm. Si espande per semplice caduta dei semi sul terreno e in primavera colora di rosa intenso le zone in cui cresce creando nuvole rosa sui rami ancora senza foglie e bellissime macchie colorate sul terreno corrispondente all’ampiezza della sua chioma.fiori

La leggenda racconta che poco meno di 2000 anni fa, nella sempre martoriata terra di Gerusalemme, l’uomo che era venuto a tentare di cambiare le cose umane scegliendo una via pacificamente rivoluzionaria senza stermini di popolazioni per la cosiddetta gloria del Signore, né per la gloria degli imperi terreni, venisse tradito da uno dei suoi più fidati seguaci proprio sotto quest’albero. Lo stesso traditore, pentitosi della sua azione -peraltro miseramente valutata solo 30 denari – si sarebbe poi impiccato ad un ramo di  questo stesso albero che da allora prese il suo nome, appunto, di “albero di Giuda”.

Di leggende, in questa terra, ne sono sempre sbocciate tante, come quella più recente della fioritura dei deserti per opera degli israeliani, occupanti in nome della propria religione di una terra già abitata da altre genti.  Ma si sa, le leggende sono frutto della creatività umana e la loro diffusione è frutto dell’abilità di chi le sa usare in modo opportuno. E gli alberi stanno lì, muti, a volte ischeletriti o mozzati dai nuovi occupanti, a volte rigogliosi nonostante la penuria d’acqua, a dimostrare il loro essere comunque figli di questa terra.

E di questa terra e delle zone limitrofe è figlio il siliquastro che poi, nel corso dei secoli, si è  ben ambientato anche sull’altra sponda del Mediterraneo dove è usato soprattutto a scopo ornamentale per le sue belle foglie reniformi e per quei fiori rosa intenso che appaiono sul tronco e sui rami prima ancora delle foglie.

Il siliquastro può raggiungere i 10 metri d’altezza ma generalmente lo si trova in forma di piccolo albero dalla grande chioma che fiorisce in primavera, si riempie di foglie che restano sui rami fino a novembre assieme ai baccelli seguiti ai fiori dopo l’impollinazione entomofila e spesso ancora sui rami fino alla primavera successiva. x BACCELLII baccelli dapprima sono di un verde chiaro e brillante, quindi di un rosso cupo, finché perdono di morbidezza e divengono bruni e secchi, non più belli a vedersi ma ancora utilizzabili nell’alimentazione in quanto i semi al loro interno sono farinosi e di gusto gradevole e possono essere usati per guarnire pane o biscotti al pari dei  semi di sesamo.  Anche i fiori sono eduli e ricchi di vitamina C se consumati freschi, per esempio in insalata o in macedonia di  frutta. Questi usi per la verità non sono comuni nell’area palestinese quanto nelle zone centro europee dove l’albero di Giuda ha attecchito nonostante ami il sole e i terreni asciutti e ben drenati.

In medicina fitoterapica da questo albero si ricava un gemmoderivato  macerando in soluzione alcoglicerica le gemme appena spuntate per regolarizzare disturbi vascolari nella circolazione arteriosa come arteriopatie e trombosi retinica. La gemmoterapia  ha origini antiche, in oriente risale alla medicina ayurvedica e alla medicina tradizionale cinese, mentre in occidente veniva usata da Galeno e da Paracelso, ma in forma moderna è stata studiata e praticata in modo rigorosamente scientifico nel “900 dal medico belga Henry Pol e dall’oftalmologo, ideatore del trapianto corneale Vladimir Petrovic.

Il concetto scientifico che è alla base della gemmoterapia è quello di utilizzare i tessuti embrionali in quanto caratterizzati da un intensa capacità di moltiplicazione cellulare e le gemme rappresentano la persistenza del ciclo vitale che, qualunque sia l’età dell’albero, torna a rinnovarsi ogni primavera.foglie

Così l’albero di Giuda, nonostante un nome tanto infausto, è una delle circa 50 piante da cui si ricavano i gemmoderivati capaci di curare malattie importanti grazie  alle proprietà estratte da elementi vegetali freschi in via di accrescimento. Come dire, volendo farne una metafora, l’apporto di energie embrionali capaci di accrescersi fornendo resistenza a malattie da degrado e da invecchiamento in una società ferita che ha necessità di nuovi apporti per non soccombere.

Fuor di metafora  l’albero di Giuda, o siliquastro, ovunque si trovi offre bellezza e colore, elementi nutritivi  e proprietà curative a dispetto, o meglio a compensazione, della cupa leggenda che lo vorrebbe testimone di un infame tradimento avvenuto duemila anni fa in terra di Palestina.

Patrizia Cecconi

PISTACIA VERA o semplicemente PISTACCHIO

Cugino “nobile” di lentisco e terebinto,  appartenente alla stessa famiglia delle anacardiacee e al genere Pistacia, il pistacchio  è uno dei  più antichi alberi coltivati dall’uomo.  E’ originario dell’antica Persia dove  pare venisse coltivato già in età preistorica, così almeno risulterebbe dal trattato del sofista greco Ateneo di Naucrati  che ne parla nel “Banchetto dei sapienti”.

In Palestina, e in genere nel Medio Oriente, si dice sia usato da oltre 10 mila anni, ma di certo da almeno  3 o 4 mila  lo è, stando a quanto scritto nella Bibbia circa i pistacchi che Giacobbe usò come dono pregiato (Genesi 43,11); o al fatto che la regina di Saba ne avesse una piantagione ad uso esclusivo suo e della sua corte; o ancora a quel che se ne racconta circa Nabucodonosor che li faceva coltivare negli splendidi giardini pensili di Babilonia per sua moglie Amytis.

Questi semi, oggi presenti nella maggior parte dei dolci che si possono acquistare in ogni suq o che vengono preparati nelle occasioni rituali anche nei villaggi  più poveri di tutta la Palestina, arrivarono in Grecia nel IV a.C. con Alessandro Magno. Qualche secolo  più tardi, sotto l’imperatore Tiberio,  i pistacchi varcarono il Mediterraneo ed approdarono in Italia e Spagna, ma fu solo a metà 800, quando gli arabi conquistarono la Sicilia sottraendola ai bizantini, che il pistacchio trovò il suo angolo particolare, alle falde dell’Etna, nel territorio di Bronte dove tuttora  rappresenta il fulcro dell’economia dell’intera area. 13815259_10210227005816119_834520328_n

Questa pianta cresce in zone collinari, esposte a sud e sopporta quasi tutto, dalla siccità estiva al  gelo invernale, ma non regge le gelate in tarda primavera, quelle che rappresentano il tradimento della natura quando ormai i fiori sono usciti rispondendo al richiamo della luce.

Il suo frutto è una drupa, di cui si consuma il seme chiamato appunto pistacchio come l’albero che lo produce e che difficilmente supera i 7-8 metri di altezza, ma che arriva a vivere fino a 300 anni. E’ una specie dioica ad impollinazione anemofila, vale a dire che il passaggio del polline dal fiore maschile a quello femminile  è affidato al vento. Fruttifica ogni due anni, e l’anno che gli agronomi chiamano di “scarica” serve a dare più vigore all’esplosione vitale di fiori e frutti nella stagione successiva.

Ha una strana caratteristica il pistacchio, infatti il fiore femminile accetta l’impollinazione anche dal terebinto ed i frutti che ne derivano sono esattamente  come gli altri. Il legame col terebinto è realmente consociativo, non solo per il suo polline, ma perché la straordinaria forza delle sue radici, capaci di fendere e di aggirare le rocce riuscendo a nutrirsi anche di pochi grani di terra arsa, è messa a disposizione del suo più raffinato cugino, e le piantagioni che fruttificano splendidamente su rocce  aride godono sempre del terebinto come portainnesto di ogni rigoglioso pistacchio.

Tra i pistacchi che crescono a Bronte e quelli che crescono in Palestina  ho notato qualche particolare  consonanza. In entrambi i luoghi gli alberi non si concimano né si irrigano: l’acqua non c’è. Ma loro ne fanno a meno e il pistacchio che,  sostenuto dal suo rustico cugino, cresce  laddove poche altre piante riuscirebbero a vivere, diventa un simbolo di resistenza alle condizioni avverse.

Ma c’è qualcos’altro che accomuna il pistacchio di Bronte al pistacchio palestinese. Qualcosa che cozza con la bontà di questo seme, ma che ha a che fare con la storia. Anche quella che non è facile  raccontare. Tanto a Bronte che in Palestina, infatti, nei due secoli scorsi la presenza e gli interessi inglesi, in modo diverso, sono stati responsabili di ingiustizie e di massacri. Alla causa di interminabile durata che i brontesi, civilmente e ingenuamente rispettosi del diritto, hanno portato avanti contro l’esproprio delle proprie terre, prima a favore di un’istituzione religiosa e poi di Horatio Nelson e suoi eredi, fa da specchio, oltre il mare, una “causa” tuttora in corso che vede i palestinesi chiedere al vento il riconoscimento dei propri diritti sulla propria terra!

Se nella seconda metà del 1800 Garibaldi e Bixio, proteggendo gli inglesi usurpatori di terre di Bronte,  hanno macchiato di vergogna e di sangue il Risorgimento italiano, di cui pure erano eroi, nella prima metà del 1900 gli inglesi, con la dichiarazione di Balfour, hanno aperto la strada al tentato annientamento dei palestinesi tuttora in atto.  Anche gli inglesi di Bronte avevano chiuso le strade ai contadini, esattamente come oggi Israele, figlio anche di quella dichiarazione di Balfour, chiude le strade ai palestinesi. Allora come ora, farseschi tribunali decretavano colpe agli incolpevoli e assolvevano gli aguzzini. Allora fu a Bronte, a eterna vergogna dell’eroica spedizione dei Mille che in Sicilia pagava il favore – e gli interessi – degli inglesi, e ora è in Palestina, a eterna vergogna delle istituzioni internazionali, in primis l’ONU, che si vedono surclassare dal potere fuori legge di Israele.

Lasciando Bronte dove i contadini, costretti a coltivare l’arida sciara, hanno fatto dell’unico albero che potesse resistere il gioiello di questo territorio, viene spontanea una metafora che sa di speranza e che affido alla fantasia di chi mi legge e passo alle proprietà del pistacchio.

Il filosofo e medico islamico Avicenna nel suo “Canone della medicina” lo definiva ottimo rimedio contro le malattie del fegato. Ricco di vitamine A, B ed E, di ferro e di fosforo, è utile contro il colesterolo cosiddetto cattivo favorendo, grazie ai fitosteroli, la produzione del colesterolo HDL, quello cosiddetto buono, divenendo un valido cardioprotettore; la presenza di fosforo aumenta  la tolleranza al glucosio e quindi è utile a prevenire il diabete di tipo 2; inoltre, grazie a due particolari carotenoidi protegge la vista dalla degenerazione maculare.   Infine alcuni studi recenti tendono a dimostrare che il consumo di 20 semi al giorno ridurrebbe il rischio di tumore al polmone. Ha solo un difetto questo meraviglioso seme: troppo calorico per chi ha problemi di linea. Ma la perfezione non è di questo mondo!

Patrizia Cecconi

 

 

 

Pistacia palaestina o terebinto palestinese

 

Tra poco attraverseremo l’ultima foresta di terebinti e querce….torniamo a casa…” Così,  nella poesia di Darwish, il terebinto segna  la strada verso la casa del ricordo. Quella perduta nel “48.

Il terebinto, o Pistacia terebinthus, famiglia delle anacardiacee, è un albero molto longevo che si dice originario dell’isola di Chio da dove si sarebbe diffuso, molti millenni fa, su tutte le sponde del Mediterraneo, compresi i paesi  del Maghreb  e poi,  spostandosi sempre più a oriente, avrebbe finito col naturalizzarsi  fino all’Iran e anche oltre.

In Palestina ce n’è una varietà autoctona, nata da un ibrido spontaneo con il lentisco. Il suo nome, secondo la classificazione risalente a Linneo, è Pistacia Palaestina e si distingue dall’altro solo per la leggera pubescenza delle foglie e per i grappoli di fiori più fitti.

Si tratta di  pianta dioica, cioè che porta fiori maschili e femminili su individui diversi, e dai grappoli di fiori femminili che fioriscono in primavera verranno le piccole bacche che in una raffinata versione dello zaatar palestinese bacche di terebintovengono  essiccate, polverizzate e mescolate a timo, sesamo e sumac conferendo alla miscela un vago aroma di pistacchio.

Da vari millenni, oltre alle bacche, con le quali si produce anche un olio alimentare una volta detto “per i poveri”, si usano le foglie ricavandone un olio essenziale con proprietà antisettiche, antireumatiche, balsamiche ed espettoranti. Solo due mesi l’ann
o il terebinto resta spoglio, ma già alla fine dell’inverno i suoi rami si riempiono di germogli.

Ma la sua fama in campo officinale la deve soprattutto alla pregiatissima resina, conosciuta fin dall’antichità come “trementina di Chio” e ottenuta incidendo la corteccia. Già gli assiri la usavano per la cura di malattie femminili.  Plinio la decantò come balsamica oltre che curativa di ascessi , dermatiti e ferite.  Fino a un paio di secoli fa è stata ampiamente usata, oltre che come balsamica,  come rimedio contro la calcolosi, le artriti e le  sciatalgie. Un altro uso molto diffuso in passato era  quello di farmaco naturale per rinforzare le gengive, sia masticandola pura, sia come enolito, laddove il vino non fosse vietato per motivi religiosi.

Osservato come elemento del paesaggio il terebinto, per molti mesi l’anno, arricchisce il panorama con le sue fronde lucenti, valorizzate da bacche rosa intenso che restano sui rami a lungo. Le sue  foglie sono imparipennate e composte di molte coppie di foglioline. Queste spessogalle presentano delle galle, cioè delle escrescenze colorate a forma di baccello prodotte dalla puntura di un afide. Anche le galle  in passato avevano il loro uso, sia  contro le infiammazioni alle gengive, sia come tintura per le pelli.

Le sue radici sono fortissime, tanto da meritargli, in Italia,  il nome dialettale di “spaccasassi” e traduzioni simili in altre lingue, proprio perché riesce a inserirsi nelle fessure delle rocce, spaccandole per radicarsi a fondo e restare unito alla terra resistendo anche al gelo e alla siccità dove altri alberi non riuscirebbero a sopravvivere: peculiarità piuttosto diffusa in molte piante che caratterizzano la flora palestinese, ma particolarmente  spiccata  nel terebinto, quasi fosse un destino condiviso col popolo che lo canta nelle sue poesie e lo utilizza nelle sue tradizioni.

Di questo albero parla anche la Bibbia in diversi libri. Nel libro del Siracide è paragonato alla divina sapienza in un versetto che recita: “Come un terebinto ho esteso i rami e i miei rami son rami di maestà e di bellezza.” Ne parla poi nel primo libro di Samuele, quando narra del gigante filisteo che nella valle del terebinto terrorizzava gli eserciti ebraici e che venne sconfitto dal piccolo Davide, prescelto dal Signore a sostituire Saul, ripudiato perché aveva disobbedito al suo ordine di sterminare tutto il popolo degli Amaleciti. Davide invece, racconta sempre la Bibbia, non aveva davide.jpgscrupoli e sapeva uccidere uomini a centinaia nonostante la giovane età, e ovviamente anche dopo. Sempre per la gloria del Signore! Così ci racconta il testo sacro.

E, ancora, il terebinto è citato nel libro dei Giudici, quando l’angelo del Signore  si presenta a Gedeone, il quale poi costruirà un altare alla Pace nel nome del suo dio.

Insomma, il terebinto è presente nell’Antico Testamento  sia  nelle pagine più spietate che in quelle meno feroci a testimoniare che questa pianta, capace di vivere centinaia d’anni e di resistere come poche alle avversità climatiche, apparteneva già alla terra di Canaan prima che ebrei e filistei ne prendessero possesso.

Anche il Corano ne parla, ma solo citandolo come albero.

I suoi “cugini” più stretti sono il lentisco, quello col quale il terebinto palestinese si è naturalmente ibridato, e il pistacchio, quello che nella cucina mediorientale riesce a dare meraviglie e i cui semi  riempiono dolci stupendi  che da quella sponda del Mediterraneo, attraverso gli arabi nel IX secolo, sono arrivati nella nostra Sicilia rendendone Bronte patria universalmente riconosciuta grazie al generoso terebinto che al pistacchio offre le sue radici.

Ma di questo nobile cugino, forse nato in Persia e che dalla Persia ha camminato conquistando senza spargimento di sangue ogni territorio e poi ha attraversato il mare  fino ad arrivare a esprimersi al massimo livello nella sciara di Bronte, parlerò alla prossima puntata.

Patrizia Cecconi

Il carrubo

Il kharrub o carrubo.

“O caro amico, ci è sufficiente dipingere con l’inchiostro dell’anima … una chiara freccia … che indichi la direzione giusta verso il nostro carrubo”.

Era il giugno del 1986 e così scriveva Samih al Qasim al suo amico Mahmoud Darwish alla vigilia della prima intifada. I due grandi poeti palestinesi esprimevano la loro speranza prendendo come riferimento simbolico il “loro” carrubo.carrubo

Il carrubo, kharrub in arabo, nome scientifico Ceratonia siliqua, famiglia delle fabaceae o leguminose, è un albero che cresce lentamente, a 100 anni si considera giovane e produce circa 2 quintali di frutti, le carrube, e a 500 ne produce ancora circa 30 chili. Un albero che ha origine proprio qui, in Palestina, dove era conosciuto e usato oltre 4000 anni fa. Chioma sempreverde, lucida e folta che può superare i 10 metri di diametro fornendo un’apprezzatissima isola d’ombra quando il sole brucia la terra. Ha  foglie composte, formate da coppie di foglioline di forma  ellittica a  margine intero e di colore verde scuro e brillante nella parte superiore.  E’ pianta generalmente dioica, cioè i fiori maschili e femminili sono portati su due diversi individui per cui la fruttificazione è possibile solo se entrambi i generi sono presenti. Il frutto inizia a formarsi in primavera subito dopo la fecondazione e matura completamente dopo un anno, prendendo la forma di lungo baccello, botanicamente detto “siliqua”, dapprima verde e poi marrone lucido e coriaceo. La polpa è dolce e fibrosa e i semi, durissimi, tutti di peso pari a 0,20 grammi e detti in arabo “qerat”, venivano utilizzati per pesare oro e pietre preziose dando nome a quell’unità di misura che ancora oggi si chiama “carato”.

Qualche migliaio di anni fa il carrubo attraversò il Mediterraneo con navi fenice e greche, anzi furono proprio i greci a farne conoscere la coltivazione nell’Italia meridionale, ma fu solo nel Medioevo con gli arabi – che ne furono i massimi esportatori e utilizzatori – che il suo uso si affermò in Occidente sia a livello alimentare, sia a livello farmacologico, sia per usi artigianali ricavati dal legno e dalle foglie.

Fino a pochi decenni fa i suoi frutti hanno salvato dalla morte per fame migliaia di persone e la sua importanza nel passato è testimoniata  dal Museo del Carrubo che si trova nell’isola di Cipro e che racchiude  un antico mulino per macinare le carrube e ottenere la farina di polpa e di semi con la quale si preparavano dolci e paste alimentari.

Questi baccelli che una volta erano cibo per poveri e per cavalli, oggi sono un frutto difficile da reperire nei normali negozi e quindi si trovano a prezzi proibitivi negli scaffali dedicati ai cibi esotici. E pensare che nel vangelo di Luca si legge che il “figliol prodigo”, divenuto povero e affamato, “Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci…”. Si legge pure che san Giovanni Battista, cioè il profeta Yahya per la religione islamica, visse anni nel deserto nutrendosi solo di carrube, perché queste possono essere essiccate e conservarsi per mesi e mesi e forniscono zuccheri, vitamine, proteine e sali minerali.

In effetti 100 grammi di carrube forniscono circa 220 calorie, 90 gr. di carboidrati, 40 gr. di fibre, 1 gr. di proteine, vitamine B,C,E e sali minerali; non hanno glutine e quindi sono adatte anche ai celiaci.

Nell’industria conserviera la farina di carrube viene usata come addensante (E410) in quanto ha la capacità di assorbire acqua per più di 50 volte il suo peso. Proprio questa caratteristica, insieme ad altri principi attivi, ne fa un valido regolatore intestinale, ottimo per riequilibrare la flora batterica, eliminare gonfiori e proteggere le pareti gastriche. Inoltre accelera il metabolismo, inibendo l’assorbimento dei grassi e favorendo la produzione di HDL, il “colesterolo buono” . Nonostante la sua ricchezza in carboidrati  la farina di carruba è un utile coadiuvante nel controllo del diabete mellito perché contiene zuccheri riduttori che non alterano il picco glicemico.carrube

In erboristeria cosmetica viene usata la farina di semi mescolata a burro di cacao o cera vergine per ottenere una maschera per il viso emolliente e antiossidante.

L’infuso di carrube, come rimedio officinale, viene usato per calmare la tosse, contro il mal di gola e per schiarire la voce, uso che ne facevano i cantanti lirici fino al secolo scorso.

Ma l’infuso di carrube è anche una bevanda tipica del Ramadan. E’ estremamente semplice da ottenere, basta lasciare in acqua fredda le carrube spezzate per un paio d’ore. Ne viene fuori una bevanda dolcissima che si beve dopo il tramonto e che reintegra zuccheri, liquidi e sali perduti durante il digiuno rituale.

Il carrubo ama il caldo e il sole, non chiede acqua, sopporta le condizioni più dure ma non il gelo prolungato. Spunta da un seme caduto dal frutto e ama restare laddove è nato. E’ uno degli individui arborei più attaccati alla terra in cui cresce. Le sue radici sono capaci di penetrare a fondo, inserirsi nelle fessure, spaccare anche le rocce calcaree e inglobarle. Estirparlo significa il più delle volte ucciderlo.

Si dice che il carrubo non invecchia col passare dei secoli ma diventa più robusto, più frondoso, più imponente. Insomma, è un albero palestinese per origine e per vocazione e oltre ad essere bello sia d’estate che d’inverno, potrebbe essere ancora una fonte di reddito e di salute utilizzandone le numerose proprietà offerte dai suoi frutti.

Patrizia Cecconi