GAZA. Progetto mascherine anti-virus

 

SOSTEGNO ALLE ATTIVITÀ DI LOTTA ALLA DIFFUSIONE DEL CORONA-VIRUS A GAZA

Localizzazione: Striscia di Gaza
Beneficiari: 1) popolazione economicamente svantaggiata della Striscia
2) Ditta Maraky di Soad Kalub, azienda artigianale di sartoria
specializzata in produzione di camici, tute ospedaliere,
mascherine chirurgiche e simili.
3) Piccole ditte produttrici di saponi nella Striscia di Gaza.

Obiettivo immediato:fornire dispositivi sanitari di protezione individuale di
base contro il contagio da virus
Obiettivo finale: sostenere lo sviluppo dell’azienda Maraky creata 4 anni fa  a Gaza dalla signora Soad Kalub dopo che la precedente azienda, localizzata a Rafah, era stata completamente distrutta dall’aggressione israeliana del 2014 denominata “margine protettivo”.
L’azienda, grazie alla tenacia della signora Soab Kalub, si sta lentamente affermando e dà lavoro e formazione professionale a un gruppo di donne gazawe liberandole dalla dipendenza dai sussidi internazionali;
Modalità d’azione: non potendoci recare personalmente in Palestina dato il
blocco sanitario, ci affidiamo a referenti di provata fiducia per la realizzazione del progetto che seguiremo on line.
Budget: 7.000 (settemila) euro
Modalità di finanziamento: libere sottoscrizioni di soci e donatori volontari
Tempi di realizzazione: 40 giorni a partire dal 1°aprile 2020

PREMESSA e MOTIVAZIONI.
Il 30 marzo di due anni fa, Giornata della Terra, iniziava la Grande Marcia del Ritorno lungo il confine terrestre della striscia di Gaza con l’obiettivo di denunciare al mondo l’inadempienza da parte di Israele verso la Risoluzione Onu 194/1948 relativa al DIRITTO AL RITORNO nelle proprie terre dei profughi palestinesi e l’illegale assedio della Striscia, sperando che il mondo agisse in nome del Diritto.
Nelle manifestazioni che si sono ripetute ogni venerdì per quasi due anni, Israele ha dato ai suoi cecchini la possibilità di esercitarsi su bersagli umani, uccidendo e ferendo un numero impressionante di manifestanti inermi. Il mondo, quello delle istituzioni, al quale si chiedeva di agire non ha agito, se non con pallidi cenni di disappunto. La situazione resta drammatica. Continua a leggere

Da Brescia a Gaza. Contaminazioni e suggestioni narrative.

9Vedere Brescia per la prima volta, ma averla nel cuore praticamente da sempre, è stato bello.

L’avevo conosciuta e studiata già alle elementari come “la leonessa d’Italia” per la sua eroica resistenza agli occupanti austriaci nella 1^ guerra d’indipendenza nel 1849. Resistenza stroncata, ma non annientata, con la fucilazione degli insorti (i Martiri di Belfiore) ordinata dal feldmaresciallo Radetzky che, da quando avevo una decina d’anni ad oggi, ancora mi chiedo per quale vergognoso motivo meriti di avere intestate le strade in molte città italiane. Sarebbe come se, una volta vinta la lotta contro l’occupazione, la Palestina intestasse delle strade a Sharon o a Begin o a quell’altro criminale di Netanyahu o magari a Moshe Dayan solo perché era un “grande” stratega.1

Tornando a Brescia, città studiata ancora alle superiori per la resistenza partigiana ai nazi-fascisti nella 2^ guerra mondiale, resistenza particolarmente eroica sapendo che la famigerata Repubblica Sociale Italiana –  quella che usava gli stessi metodi della coeva e criminale banda Stern di cui era esponente anche il futuro primo ministro israeliano Ytzahk Shamir – ebbe il suo quartier generale a Salò, proprio nella provincia bresciana. Continua a leggere

Una comunicazione da zohorfilistin

Gli articoli di questo blog relativi alla natura vengono tutti pubblicati da Nena News Agency, Agenzia di Stampa Vicino Oriente, nella rubrica “Territorio e Identità” e vengono rilanciati con propria presentazione dal quotidiano web  Comufiorine-info. Entrambe le testate sono assolutamente importanti, non per questi articoli sia chiaro, ma per il lavoro veramente prezioso che  svolgono quotidianamente: la prima sul Vicino Oriente e la seconda su tutto ciò che attiene al concetto di “bene comune”.

A queste due testate ora si aggiungerà l’agenzia di stampa internazionale Pressenza con la quale  è appena iniziata una nuova collaborazione a partire dal rilancio dell’articolo sul caprifoglio e che si allargherà ad altri temi, in particolare relativi alla Palestina.

Qualcuno ha scritto che i miei articoli sui “figli verdi della terra” sono ideologici, qualcuno ha scritto addirittura – udite, udite! –  che sono antisemiti! Anzi un sionista convinto si è scagliato con una certa furia (ma l’ho letto solo dopo qualche mese poveraccio!) contro il mio articolo sul Pistacchio, forse perché così, en passant, c’era cascata la dichiarazione di lord Balfour! Qualcun altro invece, al contrario, mi ha chiesto perché limitare questo blog ai fiori di Palestina, cioè zohorfilistin (che poi si legge zuhur) e ho risposto che anc14088739_10210538295398164_1105963145_nhe antologia significa raccolta di fiori (anthos e lego in greco che poi diventa florilegium in latino). Tutti noi abbiamo usato le antologie almeno durante la scuola e abbiamo visto che quei fiori raccolti non si limitavano certo ai fiori spuntati dalla terra!

Bene gli articoli raccolti in  questo blog, invece,  sono soprattutto sulla flora palestinese, ma altri “fiori” potranno aggiungersi man mano, proprio come vuole…. un’antologia!

Bè, per conclfiori di campoudere, vi dico che oltre a qualche critica sionista, mi sono arrivati anche tanti graditi apprezzamenti e per questo sto rilanciando, come mi è stato richiesto, i vecchi articoli. Comunque, oltre che sul mio blog sono tutti rintracciabili nell’archivio di Nena News,  la testata che come ho detto sopra, ha dedicato una specifica rubrica ai figli vegetali della terra palestinese, la rubrica che si chiama, appunto,  “territorio e identità”.

 

IL MELOGRANO

RUMMAN, Punica granatum,  Malum punicum, Malum granatum, Pomo saraceno, Melograno.

melagrana_semi_del_frutto.jpg     Tanti nomi per un alberello della famiglia delle Lythracee che per la sua bellezza, le sue storie, la sua simbologia e infine le sue proprietà li merita tutti.

Il nome Rumman, con cui è conosciuto in Palestina viene dall’antico egiziano “Rmn” e dato che la pianta ha la sua origine nell’area compresa tra l’Africa settentrionale e l’Asia occidentale, a pieno titolo questo nome gli spetta come originario.

I romani invece lo chiamarono Punica granatum, che oggi è anche il suo nome scientifico, composto secondo la nomenclatura  linneiana dal genere Punica –  attribuitogli perché arrivò attraverso i cartaginesi –  e  dalla specie granatum, nome dovuto ai tanti grani che ne compongono il frutto.

Di miti e leggende intorno al melograno ne sono fioriti veramente tanti, sia per la bellezza dei suoi fiori, sia per la particolarità dei suoi frutti. Anche le religioni lo hanno fatto proprio: il Corano lo considera come uno degli alberi del giardino del paradiso; la Bibbia lo cita come il quinto albero della terra promessa ma ne prende in considerazione soprattutto il frutto come simbolo di onestà e rettitudine per il numero dei suoi  grani, 613 come i 613 precetti della Torah che, secondo la tradizione ebraica, devono  rappresentare l’agire saggio e corretto di ogni ebreo.

In realtà i grani della melagrana, botanicamente detti arilli, non sono esattamente 613 ma questo non toglie importanza alla sacralità del frutto e in fondo, pensandoci bene, neanche i 613 precetti della Torah sono tutti rispettati dagli ebrei, in particolare dagli ebrei israeliani. Basti citarne qualcuno, come ad esempio:  non umiliare gli altri; non opprimere il debole (l’orfano, la vedova);  non spargere calunnie riguardo al prossimo;  non cercare vendetta; prova pentimento e ammetti il peccato compiuto; non rubare; rispetta la legge per l’offerta di pace; restituisci gli oggetti rubati e, se non puoi, almeno il loro controvalore; non uccidere; non uccidere l’assassino prima che abbia avuto un processo; non abbattere alberi da frutto neppure durante una battaglia ….

Penso possa bastare per dimostrare che l’agire di Israele rispetto ai palestinesi rende evidente a tutti che molti dei 613 precetti non vengono rispettati  e quindi non è un grosso problema se la melagrana, pur non avendo esattamente 613 arilli, viene collegata alla Torah!

Un ruolo meno imprudente, e non giocato sul numero dei grani ma sulla loro bellezza,  viene assegnato a questo frutto nel Cantico dei cantici che si dice scritto da Salomone. Qui, in una  similitudine ricca di sensualità, come del resto lo è l’intero Cantico, a uno spicchio di melagrana viene paragonata la guancia della sposa in un crescendo di apprezzamenti alla sua bellezza  che –  allegorie religiose a parte –  rendono chiaro che l’amore cantato è inteso anche come amore fisico. La donna amata non ha soltanto la gota bella come spicchio di melagrana, ma è paragonata a un intero giardino di melograni che si offriranno all’amore durante la fioritura. Altra immagine, questa, che non lascia dubbi interpretativi e che nobilita tanto il melograno quanto il piacere di amare come essenza della vita.

E infatti questo frutto si presta da sempre a interpretazioni legate alla sfera della sensualità e della fertilità, basti pensare che tra i suoi simboli più antichi c’è quello dell’erotismo e dell’invincibilità attribuitogli già dai babilonesi tramite la figura di Ishtar,  dea dell’amore e della fertilità ma anche della guerra. Simbolo  riproposto nel legame vita-morte-vita dalla mitologia  greca. Leggende e relative sfaccettature simboliche sono numerosissime ma tutte, comprese quelle di natura religiosa, hanno in comune il simbolo dell’abbondanza, del dolore e dell’amore, della vita e della morte che si riallacciano in energia vitale.

In una di queste leggende, l’albero di melograno sboccia dalle gocce di sangue di Dioniso, figlio adulterino di Zeus, ucciso dai Titani per volere di Era, gelosa moglie del dio dell’Olimpo, secondo lo schema tipico della cultura patriarcale che informa tutta la mitologia greca e che, tra un simbolo e l’altro, è arrivata fino a noi. Ma per quei miracoli tutti interni alla mitologia, il corpo del dio bambino viene ricomposto e Dioniso, rinato alla vita, diventerà il dio della gaiezza, dell’estasi, della libertà senza freni e il padre della vite. Non è un caso che sia nei paramenti sacri che negli ornamenti laici, tanto  nell’abbigliamento che nell’architettura, è facile rinvenire sia tralci di vite che frutti di melograno.melograno2

Anche nel mito forse più significativo del legame tra vita, morte e rinascita rientra questo frutto. E’ il mito di Persefone, la fanciulla rapita dal dio Ade, salvata da sua madre Demetra che riuscirà a ottenere il suo ritorno sulla terra ma, ingannata da Ade che ancora nell’oltretomba le offre sette chicchi di melagrana, la fanciulla vedrà compiersi l’incantesimo che la vorrà 6 mesi nell’Ade a governare il regno dell’aldilà e solo gli altri 6 mesi sulla terra a far fiorire la natura. Questa separazione-unione che va ripetendosi e che mantiene il senso della vita passando via via il testimone è un richiamo che ho sentito fare anche dal venditore improvvisato di succo di rumman nei pressi di Gerico, più precisamente vicino al santuario del “Monte delle Tentazioni”, quello di cui parla il Vangelo. Questo improvvisato barman, privato della casa grazie al mancato rispetto di uno dei precetti della Torah da parte degli israeliani, con uno spremiagrumi e un banco di legno s’è inventato un lavoro per sopravvivere e, preparandomi il succo, mi ha detto  che dalla morte di tutti quei chicchi nasce la vita per la salute di chi lo beve. Poi ha aggiunto, o almeno così mi è stato tradotto, “proprio come chi dà la propria vita per il suo popolo”.

Lui magari lo diceva solo per vendere più succhi, ma forse senza saperlo ha messo nella sua frase tanto il senso simbolico del melograno, quanto la ricchezza di nutrienti che tra vitamine, sali minerali, polifenoli, fibre, zuccheri e antiossidanti ne fanno un gioiello di cui già Ippocrate decantava le proprietà e ne prescriveva gli usi farmacologici oggi riconfermati dalle analisi scientifiche.  Ma prima ancora di lui, oltre 4500 anni fa, già gli egiziani lo usavano per scopi farmaceutici, in particolare ne usavano la scorza polverizzata come antielmintico.

Ippocrate, circa 2.500 anni fa ne utilizzava sia scorza che frutto per farne preparazioni a scopo antinfiammatorio, astringente, antibatterico, gastroprotettivo, vasoprotettore  e ricostituente. Oggi sappiamo che i suoi studi empirici erano corretti e, infatti, sia il frutto che la corteccia hanno le proprietà che il grande medico gli aveva attribuito pur non conoscendo la composizione di alcuni elementi che solo con l’invenzione del microscopio sarebbe stato possibile studiare.

Nel succo degli arilli sono presenti in alta quantità le vitamine A, B, E, C e K , ma i componenti più significativi che fanno della melagrana un cardioprotettore e un alleato contro l’invecchiamento cellulare e, sembra, addirittura un killer delle cellule cancerogene, sono i polifenoli, gli antiossidanti e soprattutto l’acido ellagico.

Ma vediamolo nelle sue caratteristiche botaniche questo alberello che difficilmente supera i 4-5 metri. Le varietà della specie botanica, dovute tutte a ibridazioni da laboratorio, sono oltre 300 e proprio a Gerusalemme, presso l’Università Ebraica nella parte occupata illegalmente da Israele,  sorge il maggior centro mondiale di studi sull’ibridazione del Punica granatum.melograno 3

Quest’albero non ha bisogno di grandi risorse idriche, anzi ama i terreni semi aridi e quindi può essere facilmente coltivato anche dai palestinesi le cui risorse idriche, come si sa, sono state decimate dall’occupazione.

Il melograno ha anche avuto la fortuna di non finire in massa sotto la mannaia che ha privato i territori palestinesi di circa 3 milioni di alberi di olivo e infatti, chiunque vada in Palestina, troverà facilmente un venditore di succo di rumman che per pochi shekel (moneta israeliana che i palestinesi sono costretti a usare poiché la lira palestinese è vietata dall’occupante) fornirà una dose di antiossidanti, vitamine, sali minerali e acido ellagico prodotta là per là e indiscutibilmente buona.

La specie originaria del Punica granatum ha foglie rosse al loro germogliare che poi assumono un colore verde chiaro, sono ovali, a margine intero, lunghe dai 4 ai 7 centimetri. I fiori sono di color rosso vermiglio generalmente a 4 petali e particolarmente belli. Il frutto è una bacca tondeggiante dalla scorza coriacea il cui nome botanico è balausta. Al suo interno è ripartito in setti fibrosi che separano i circa 600 arilli in diversi gruppi.

Questa è la stagione in cui la melagranata si trova anche in Italia e approfittare di quei 50 ml quotidiani di bontà antiossidante, antidepressiva e anticancerogena non è difficile. In questo periodo in alcune regioni del nostro Sud questo frutto si usa anche per preparare dolci legati alla commemorazione dei morti, proprio per quella specie di filo che, come diceva il venditore del Monte delle Tentazioni, unisce la fine della vita  alla rinascita.

Per riportare in una stessa sfera, o meglio in una stessa coppa i due frutti che la mitologia greca ha legato a Dioniso, consiglio a chi ama il vermouth, che altro non è che la voce casareccia del più elegante Martini, di lasciar macerare in un litro di vino secco di buona qualità e di elevata gradazione, un quarto di scorza di balausta per un mese, al buio e ovviamente con un tappo ermetico. Filtrate dopo un mese e avrete un ottimo cugino del Martini dry con cui potrete inaugurare l’anno nuovo accompagnandolo con chicchi sciolti di melograno che portano di sicuro salute e qualcuno dice anche fortuna.

Anche il capodanno ebraico, cioè il Rosh ha-shanah,  prevede il consumo della melagrana come alimento di buon augurio e questa prima di essere consumata  viene benedetta con una formula che dice “i nostri meriti siano numerosi come i semi del melograno”. Per capire come andrà l’anno nuovo nei territori che sono ancora costretti a subire l’arbitrio israeliano, è necessario interpretare cosa intende per “meriti” chi occupa la Palestina sbandierando diritti di provenienza biblica.

Intanto gli alberelli di melograno sembrano in festa e le loro grandi bacche si stanno aprendo un po’ ovunque, la loro corteccia ormai è rossa e gli arilli chiedono di essere consumati per ricominciare il ciclo. Anche su terra arida, anche con due sole gocce d’acqua il melograno manda a dire che la vita non si ferma.

Patrizia Cecconi

 

Emigrazioni | Fondazione Erri De Luca

Peccato che Erri De Luca appartiene a quella categoria di osservatori strabici che mentre s’impegnano su temi sicuramente nobili, fingono di non vedere cosa fa Israele seguitando a difendere l’operato, anzi il criminale operato.
Come si fa a dar credito a belle parole espresse sulla tragedia dei migranti quando si difende l’operato di uno Stato (e non solo del suo governo) che da 70 anni tormenta la popolazione autoctona con l’obiettivo di eliminarla da quella terra?
Mi dispiace, ma non credo possa esserci niente di valido, né tanto meno di sinceramente partecipe del dramma “del Mediterraneo”, in chi sostiene i governi israeliani. Anzi provo indignazione sincera nel veder strumentalizzata la tragedia dei migranti da questo personaggio.
Patrizia Cecconi

Domodama

In braccio al Mediterraneo
migratori di Africa e di oriente
affondano nel cavo delle onde.
Il pacco dei semi portati da casa
si sparge tra le alghe e i capelli
La terraferma Italia è terrachiusa.
Li lasciamo annegare per negare.

Sorgente: Emigrazioni | Fondazione Erri De Luca

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AKUB, IL “CARDO SELVATICO” DEL MEDIO ORIENTE

Nelle zone semi-aride del Medio Oriente, dopo le piogge autunnali, spunta una pianta della famiglia delle asteracee. E’ una famiglia ricca, quella delle asteracee, i botanici hanno classificato 23.000 specie raccolte sotto 1500 generi appartenenti a questa famiglia il cui  nome deriva dalla forma del fiore. Sarebbe meglio dire dell’infiorescenza perché, in realtà, quello che sembra un unico fiore altro non è che l’insieme di moltissimi piccoli fiori che hanno solo la forma di petali ma in realtà sono singole individualità sorgenti dalla stessa base e nutrite dalla stessa linfa. Un po’ come un popolo originario dello stesso territorio e nutrito della stessa cultura                                                    gundelia

La famiglia delle asteracee, proprio per questa sua caratteristica di raccogliere un “popolo” di piccoli fiori in un unico insieme, si chiama anche delle “composite”, e tra i vari generi che la compongono c’è anche il genere Gundelia di cui consideriamo la specie tourneforti , ovvero, in arabo, l’akub.

La Gundelia tourneforti fino al 1998 non creava interesse in Occidente, mentre in Medio Oriente e in particolare in tutta la Palestina storica, era già da millenni una pianta apprezzata e molto utilizzata. Nel ”98 è salita agli onori della cronaca anche in Occidente  perché  alcuni studiosi  hanno rinvenuto il suo polline nella Sacra Sindone, lasciando così supporre che i soldati romani, 1981 anni fa, si divertirono a confezionare la corona di spine con cui avrebbero “incoronato” Gesù prima della crocifissione, come ultimo dileggio verso l’uomo che aveva messo seriamente in discussione il potere, provando a cambiare i rapporti tra gli umani in nome di un’uguaglianza di dignità che ancora oggi non è data per scontata.

Comunemente la Gundelia viene chiamata “cardo selvatico” per le sue spine e per l’oggettiva somiglianza ad altre  specie del genere Carduus. Seguiterò anch’io a chiamarla cardo selvatico, come ho imparato a fare nel suq di Betlemme la scorsa primavera.

Seguiterò a chiamarla cardo selvatico anche pensando a una delle tante leggende che la letteratura classica ci racconta per spiegare la nascita di una specie vegetale: quella del dolore che spuntò dalla Terra per la morte del giovane Dafni, e che sembra adattarsi perfettamente all’episodio – non leggendario ma tragicamente reale – di Yusef Abu Aker, un ragazzino di 14 anni, che verso le 7 di un mattino di marzo, in un villaggio nei pressi di AlKhalil (Hebron), venne ucciso da un soldato dell’IOF (l’esercito di occupazione) mentre raccoglieva gli akub prima di andare a scuola.

Nella leggenda antica fu il  pianto di Venere o – a seconda delle versioni – di Diana o di Ermes, ad accompagnare la morte del giovane Dafni, e si racconta che la Terra accolse con tanto dolore il corpo del ragazzo, che trasformò le lacrime in piante dalle foglie spinose come l’ingiustizia della sua morte.

E’ commovente vedere come nella letteratura antica il dolore, l’angoscia, l’ingiustizia vengano affidati al regno degli dèi i quali,  reimpastando i sentimenti umani con i figli della terra, offrono consolazione alla morte e restituiscono simbolicamente  la vita per tutti i secoli  di cui è capace la memoria.

Ma Yusef Abu Aker, il giovane raccoglitore di akub, non avrà cantori greci o latini a ricordarlo, e il suo nome andrà a confondersi con quello delle centinaia di bambini che in questi giorni l’IOF ha ucciso a Gaza, e di quelle altre centinaia che ha ucciso nelle aggressioni precedenti, e alle decine e decine che uccide in Cisgiordania in uno stillicidio insopportabile che richiederebbe tutti gli dèi dell’Olimpo per avere un pizzico di consolazione e tutte le piante della Palestina per cantarne la memoria.

Ma torniamo alla Gundelia e vediamola da vicino, tanto più che è una delle poche specie che non crescono spontaneamente sulla nostra sponda del Mediterraneo.

La si può vedere andando in Palestina, ma solo dall’autunno alla primavera perché poi si secca, si stacca dalla radice e vola via, disperdendo nel vento i suoi semi che raggiungono distanze anche di decine e decine di chilometri e portano lontano, dovunque ci sia il terreno adatto al loro attecchimento, nuove piante che offriranno il loro messaggio e i loro frutti a chi continuerà la tradizione della raccolta per scopi fitoterapici o per preparare l’antica ricetta palestinese dell’akub cucinato con carne macinata, limone e yogurt[1].

                                                              gundelia cucinata

In tutti i suq palestinesi, in primavera, si trovano cesti di questi cardi, solitamente venduti da donne sedute a terra che li preparano al momento, despinandoli prima di venderli. La raccolta non frutta moltissimo e non può essere considerata unica fonte di reddito, ma alcuni ristoranti a Gerusalemme ovest, avendo compreso l’importanza di fare “propria” una ricetta tipicamente palestinese, ne stanno facendo un piatto “israeliano” per turisti curiosi e poco informati.

Vediamo insieme come si presenta, in modo che chi si trovi in Palestina, o in Giordania, o nei paesi limitrofi in quel periodo possa riconoscerla. La pianta può raggiungere anche gli 80-100 cm d’altezza, ma spesso la si trova non più alta di 20-30 cm. Le sue foglie sono molto spinose e le infiorescenze, se non sono state recise per essere utilizzate prima della fioritura, sono composte da fiori tubulosi di colore biancastro avvolte in brattee di tipo squamoso. Anche le foglie e perfino i semi, volendo, hanno un uso alimentare, questi ultimi possono essere tostati e usati come caffè.

Ma la Gundelia ha anche un uso medicinale. La medicina popolare è un altro aspetto di quella cultura che si lega all’identità di un popolo, e le piante ne sono l’elemento principe. Per quanto riguarda la pianta in questione, essa viene utilizzata  da oltre duemila anni come depurativo del fegato e ipoglicemizzante, quindi consigliata anche per chi soffre di diabete. Il latice che si trova nelle venature delle sue foglie viene invece usato contro le verruche, e gli impiastri di foglie e semi essiccati, contro la vitiligine. Inoltre, sempre nella medicina popolare, alla Gundelia si è attribuita nel corso dei secoli una numerosa serie di proprietà farmacologiche che oggi sono state verificate e confermate. Una delle proprietà più significative è sicuramente la ricchezza di sali minerali e di vitamine A, B e C  presenti nell’olio che si ricava dai suoi semi e che è adatto al consumo umano.  Altra proprietà significativa dal punto di vista salutistico è la capacità di ridurre grasso e colesterolo nel sangue.

Studi recenti hanno anche scoperto che la pianta può essere usata per bonificare terreni contaminati da metalli.  I suoi semi potrebbero  quindi essere dispersi sulle rovine della striscia di Gaza dopo i terribili bombardamenti che pare abbiano inquinato il suolo di pericolosi elementi. Il costo sarebbe minimo e il risultato probabilmente efficace, ma gli akub usati per disinquinare il terreno non potrebbero più essere consumati e il dolore di tanto lutto non svanirebbe certo con la bonifica del suolo.

Sarebbe comunque bello affidarsi a qualche migliaio di “cardi selvatici” per recuperare l’oltraggio immenso fatto dagli uomini alla natura e ad altri uomini. Resterebbe solo la tristezza di vedere come, nella Striscia di Gaza, una tradizione piacevole e gustosa possa trasformarsi in aiuto contro i danni di un’aggressione che poteva essere evitata se solo la giustizia internazionale avesse fatto il suo corso.

gundelia-tourneforti

[1] Per ogni curiosità circa la cucina palestinese, sia per la preparazione che per le origini, v. Fidaa Abuhamdya,  “fidafood.blogspot.com”

SUMMAQ, IL PICCOLO ALBERO DELLA SPEZIA ROSSA.

 

SUMMAQ, IL PICCOLO ALBERO DELLA SPEZIA ROSSA.

sumac1                                       sumac o rhus coriaria

Il suo nome scientifico è Rhus coriaria e appartiene alla famiglia delle anacardiaceae, come il più conosciuto pistacchio. E’ alto circa 3 metri, ha foglie composte, imparipennate  e infiorescenza a pannocchia. La sua origine è la fascia compresa tra l’Europa meridionale e il vicino oriente fino all’Iran, l’antica  Persia dove il suo uso risulta plurimillenario.

Il nome comune, in italiano, è sommacco siciliano e chiaramente deriva dall’arabo ( سماق ) la cui pronuncia è, appunto, summaq, non troppo distante dalla pronuncia in lingua farsi,
la lingua parlata in Iran.

Lo si trova, a volte, in forma arbustiva e selvatica in aree abbastanza estese, perché cresce bene  e si diffonde con facilità anche nei terreni più poveri e aridi. Oggi, sulla sponda europea del Mediterraneo non è più utilizzato né apprezzato, mentre fino alla metà  del “900 era fonte di
reddito, soprattutto in Sicilia, perché largamente  impiegato nell’industria conciaria e tintòria.  Ma ormai i suoi tannini sono stati sostituiti dalla chimica e il povero alberello ha finito per essere considerato un brutto infestante chiamato spregiativamente “scotano” e, pur se in autunno i boschetti di sommacco formano delle bellissime macchie rosse nel paesaggio, nessuno lo prende più in considerazione e il suo destino sembra ormai segnato dalla caduta del suo valore economico.

In Medio Oriente, invece, quest’alberello è ben considerato grazie alle bacche da cui si ricava una delle spezie più usate ed apprezzate. Il suo crescere con facilità, quindi, non lo fa  considerare un infestante, bensì una benedizione. La spezia che se ne ricava è usata da millenni sia nell’alimentazione che nella farmacologia. Il suo nome è il nome stesso dell’albero. Con variazioni grafiche, più che fonetiche, lo si può trovare nella traslitterazione in caratteri latini come sumak o summaq o somac.

In Palestina la sua presenza è talmente familiare che può capitare di sentir chiedere a un negoziante  السماق لون في ثوب أريد     che tradotto  significa: “voglio un abito color summaq”, vale a dire di quel particolare rosso con tendenze al porpora e al marrone che si ricava solo dalle bacche essiccate e macinate del Rhus coriaria, l’unica specie di Rhus che può essere utilizzata come alimento, sebbene con alcuni accorgimenti. Infatti, anche i frutti della Rhus coriaria sono tossici se ingeriti freschi, ma le popolazioni mediorientali che li utilizzano da millenni sanno che vanno raccolti in estate, poco prima della maturazione, e lasciati essiccare. A questo punto perdono la loro tossicità e vengono  macinati e trasformati nella polvere rossa, pregiata e vagamente profumata di limone,  che viene cosparsa sui cibi e che entra nella miscela più tipica e “identitaria” della Palestina: lo zaatar, accompagnando il timo, che ne è la base (a volte sostituito dall’origano) e il sesamo, che ne è l’altra componente di rispetto. Per avere qualche ricetta particolarmente gustosa, sarà bene consultare il sito “fidafood.blogspot.com” della blogger palestinese Fidaa Abuhamdiya che si occupa di cibo e cultura.

Secondo alcune fonti, la scoperta di questa spezia capace di sostituire l’aceto risalirebbe agli antichi romani che impararono a usarla durante il loro dominio nella regione. Tuttavia in Persia, ben prima dei romani,  il summaq rientrava già nell’antichissima tradizione del “nawruz”, il capodanno iraniano pre-islamico che coincide con l’equinozio di primavera e che si fa risalire a Zoroastro (o Zatathustra). Il festeggiamento, tuttora molto seguito dal popolo iraniano benché osteggiato dall’integralismo religioso dei suoi governanti, è altamente simbolico e, tra i sette cibi che imbandiscono la tavola del nawruz come buon auspicio per il nuovo anno, sono presenti le bacche di summaq.

Girando nei suq palestinesi, invece, il summaq si trova solitamente in polvere e spesso fa parte, accanto ad altre spezie, di splendide composizioni colorate in cui spicca con il suo rosso scuro. Si trova a volte anche sulle tavole palestinesi, dove viene servito in piattini di ceramica artigianale, accanto alle vivande su cui può essere spolverizzato a piacere, rendendole gradevoli e maggiormente digeribili.

Ma passiamo alle proprietà salutistiche che si ricavano dalla Rhus coriaria .                                                              sumaq in polvere

Va premesso che quando il grande Linneo classificò la pianta dando alla specie il nome di “coriaria” lo fece conoscendone l’uso occidentale, cioè quello dei “cuoiai” che ne utilizzavano foglie e corteccia per conciare e tingere le pelli, perché quello era il solo uso che se ne facesse in Occidente. Ecco perché a tutti gli effetti, dall’antichità ad oggi, il summaq, in quanto spezia, ha identità squisitamente mediorientale.

Anche l’uso terapeutico, tuttora conosciuto e praticato in Palestina, ha la stessa origine. Nel medioevo la medicina araba, del resto al pari della filosofia e di varie scienze, si diffuse anche in Italia. La medicina si diffuse in particolare attraverso la Schola Salernitana e ancora si trovano scritti, ormai da collezione, che raccomandano l’uso delle bacche di sommacco, essiccate e pestate, per calmare i dolori di stomaco, (due mesi fa a Jenin ne ho sperimentato personalmente una tisana in seguito a un attacco di gastrite ed ha funzionato alla perfezione) e per almeno altri dieci disturbi comprese gengiviti e congiuntiviti.

Andando indietro nel tempo, risulta che anche Dioscoride ne conoscesse l’efficacia come antinfiammatorio, ma fu soprattutto il grande medico arabo Yuhanna ibn Masawaih, conosciuto come Mesue il Vecchio o Giovanni di Damasco, vissuto tra l’ottavo e il nono secolo d.C.  a  descriverne dettagliatamente le proprietà che fanno di questa spezia un toccasana per l’apparato gastro-intestinale, per abbassare la febbre e per combattere le infiammazioni. Da Mesue il Vecchio a Matteo Plateario, uno dei quattro maestri della Schola Salernitana, il rimedio passò in Italia, ma mentre qui è andato perdendosi, in Medio Oriente viene tuttora usato per diverse patologie legate all’apparato gastro-intestinale.

Ma il bello del summaq, la carta vincente che forse può farne qualcosa di più di una gradevole spezia mediorientale con qualche appendice di natura fitoterapica, è la scoperta del suo straordinario potere antiossidante. Nella tabella ORAC ( Oxigen Radicals Absorbance Capacity) che misura le capacità di  assorbimento dei radicai liberi, il summaq è ai vertici degli antiossidanti, il che significa che è in grado di combattere ogni forma d’invecchiamento cellulare, da quelle meno serie di carattere estetico, quali il rilassamento epidermico,  a quelle più gravi quali il morbo di Alzheimer o l’insorgenza tumorale.

Non resta quindi che farne uso, magari acquistandolo nella sua terra d’elezione, quella in cui io stessa l’ho conosciuto e apprezzato e dove, grazie alla sua resistenza alle più crudeli condizioni ambientali,  è riuscito a sopravvivere nonostante i continui furti d’acqua che rendono arida la terra su cui cresce.

 

 

Per le consulenze in arabo ringrazio i mie amici M. Al Laham e M. Ghazawnah

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un giglio di campo che sembra una stella

              UN GIGLIO DI CAMPO CHE SEMBRA UNA STELLA

Oggi voglio parlare di un piccolo giglio di campo. Il nome comune è “stella di Betlemme”, in arabo si chiama الحم  بيت نجمة  (pr. NaJmat Bait Lahm). E’ conosciuto anche nella flower therapy di Bach col nome inglese di “star of Bethlehem”.

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E’ un piccolo fiore bianco, si trova anche su questa sponda del Mediterraneo – del resto come gran parte della flora palestinese – ed è diffuso nello stesso areale dell’olivo. Fiorisce in primavera.

E’ un fiore spontaneo, e per ciò stesso non sempre valorizzato. Si sa, senza valore economico spesso si perde valore tout court. Ma non se si guarda con la giusta lente. Forse per questo un paio di millenni fa, guardato nel modo giusto,  questo piccolo fiore fu considerato tanto bello che neanche il più ricco vestito del re Salomone sarebbe  mai stato alla sua altezza. Parola di Matteo l’evangelista.

Per conferirgli la dovuta dignità scientifica, va detto che appartiene alla famiglia delle liliaceae (o hyacinthaceae), al genere Ornithogalum e alla specie umbellatum, per cui il suo nome botanico è Ornithogalum umbellatum, nome che in qualche campagna italiana, per antica memoria del latino e anche del greco, ha trovato una poco poetica traduzione in “latte di gallina”.

Questo giglio campestre, secondo una leggenda palestinese cristiana, altro non sarebbe che la metamorfosi della stella cometa la quale, dopo aver guidato i Magi ed aver visto il Bambino nella grotta, non voleva più lasciare la terra. A credere alla leggenda ci sarebbe stata una bella lotta tra il suo destino predeterminato e la sua volontà di modificarlo! La cometa infatti doveva tornare in cielo a vivere e morire come le altre stelle. Ma fece una resistenza così tenace che alla fine l’arcangelo Michele si commosse, convinse l’Onnipotente, e si ebbe la metamorfosi: una stellina bianca a sei petali con la punta degli stami giallo oro come si pensa possano essere le punte di una stella.

Anche il simbolo della città di Betlemme è una stella e, non a caso, è una stella che a colpo d’occhio ricorda un fiore.

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Come tutte le liliaceae la stella di Betlemme si sviluppa da un bulbo sotterraneo. Da questo, a fine inverno, spuntano delle foglie lunghe, lineari, attraversate longitudinalmente da una linea bianca. Poi spunta lo stelo, che non supera generalmente i 30 centimetri e alla sua sommità sboccia l’infiorescenza composta da un ciuffo di 7-8 e più fiori che si aprono alla luce del sole e si chiudono al tramonto, nascondendosi alle altre stelle.

Questa piantina perenne, bella, delicata e luminosa, è però altamente tossica. Lo è in ogni sua parte e in modo particolare nel bulbo. Se ingerita può provocare la morte per arresto cardiaco poiché contiene un alto quantitativo di glicosidi cardioattivi. E’ bene quindi che i bambini non la prendano in considerazione nei loro giochi.

Ma come molte piante velenose, anche l’Ornithogalum umbellatum ha la sua funzione come farmaco. Non a caso il termine “farmaco” viene dal greco e significa veleno. Tutto sta nel saperlo usare! Non deve stupire, quindi, se da questa pianta potentemente tossica si ricavano farmaci omeopatici per problemi gastrici e addominali di diversa gravità, compreso il cancro all’intestino.

Ma la sua fama, la stella di Betlemme, la deve in particolare al dr. Edward Bach, il padre della floriterapia, un ramo relativamente giovane della fitoterapia. Fu lui, infatti, a trovarne i principi capaci di curare  disturbi dovuti a traumi fisici o psicologici subiti in seguito a incidenti,violenze, lutti o gravi spaventi. Nella floriterapia di Bach questo fiore è il numero 29 e rientra in tutti i rimedi d’emergenza.
E’ usato per curare i postumi di shock sia recenti chedi vecchia  data, per esempio risalenti all’infanzia che,              STAR OF BET LE M3
nello specifico palestinese, potrebbe coincidere con la Nakba per le persone molto ricche di anni, o con la Naqsa, per quelle non giovanissime, ma abbastanza giovani, oppure, per tutte le altre,  con l’abbattimento di una casa o di un oliveto, o con un’incursione militare, o con un sequestro di persona erroneamente definito arresto, o con l’aver assistito a uno o più omicidi  da parte dell’esercito che occupa la Palestina, e così via.

Tutti questi casi rientrano nei traumi che generano quelle che il dr. Bach – pur ignaro della specifica situazione palestinese – definì “ferite dell’anima”. Ma il fiore n.29 serve anche nei casi di shock fisici, cioè “ferite del corpo”, come ad esempio percosse o ferite da arma da fuoco causate da coloni o da militari senz’altra legge che la propria. Per questo secondo tipo di ferite i rimedi floriterapici consistono in creme che facilitano la cicatrizzazione, mentre per le ferite dell’anima il preparato è una tintura officinale che va somministrata a gocce.

Il dr. Bach nel suo manuale indica la stella di Betlemme come rimedio utile a “coloro che soffrono parecchio a causa di eventi che per un certo periodo sono fonte di grande infelicitàpoiché rimuove i traumi e rimargina le ferite del corpo e dell’anima”. Ma il dr. Bach non aveva preso in considerazione il perpetuarsi del trauma!

Pertanto, in attesa che la giustizia, di cui ancora non si conosce il fiore, prenda il posto dell’occupazione militare e del sopruso, i prati palestinesi a primavera seguiteranno a riempirsi di bellissimi, nivei, gigli di campo che, a occupazione sconfitta potranno curare davvero le ferite dell’anima prodotte da tanti anni di violenza.