TERRITORIO e IDENTITA’. La Palestina attraverso il suo ambiente naturale.

Ciao, dopo parleremo dell’olivo, ora mi rivolgo a chi segue la rubrica Territorio e identità sull’agenzia di stampa NenaNews, ma anche a chi segue altre rubriche come Cibo e identità e anche a chi non segue rubriche ma si aggiorna su NenaNews, una delle pochissime fonti oneste circa il Medio Oriente e la Palestina in particolare. Nena news è come i fiori … scusate eh, se mi rifaccio al tema di questo blog, cioè “fiori di Palestina” : se non ha acqua non cresce, anzi rischia di brutto. E se Nena si essicca chi ci dice cosa succede in Palestina? Marrazzo? Molinari? I cronisti di Repubblica o del Corriere?

Insomma, se riusciamo a mandare un contributo avremo la possibilità di essere ancora informati. Sennò la vedo dura. Anche se 10 o 20 euro sono pochi, se tutti i ventimila lettori di Nena volessero metterceli si arriverebbe a 200.000 euro o a 400.000. Insomma una bella boccata d’ossigeno con poco sforzo individuale. Poi, chi si schifa di mandare 10 o 20 euro può pure mandarne 100, certo, non avrà molti compagni di bonifico, però lo può fare! Ecco i dati: conto corrente Intestato a: NENA NEWS – Associazione di Promozione SocialeIBAN: IT 43 T 02008 05286 000103061447.  Ed ecco il link completo, annaffiamo NenaNews, dai!! http://l.facebook.com/l.php?u=http%3A%2F%2Fnena-news.it%2Fsostieni-il-lavoro-di-nena-news%2F&h=GAQFS6OQZ&s=1

E ora l’articolo sull’olivo. Scritto un mese e mezzo fa e già pubblicato da Nenanews.

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Olivi plurimillenari dell’orto dei Getzemani. Gerusalemme.

E’ il momento di parlare dell’olivo. E’ il momento in cui la fatica della raccolta si è trasformata in gioia nell’assistere alla mutazione in liquido prezioso e denso di quei milioni di piccole drupe che hanno segnato le civiltà del Mediterraneo.

Forse nessun albero come l’olivo ha visto il passaggio della coltura in cultura e il diventare l’una parte integrante dell’altra.

Nella sua forma originaria, cioè prima dell’antichissimo addomesticamento, l’olivo  si presentava in forma selvatica, tuttora  esistente e comunemente definita “oleastro”, capace di produrre drupe più piccole e più amare dell’olivo domestico.  La sua origine allo stato selvatico è rintracciabile nel Vicino Oriente, da dove si sarebbe estesa in tutte le aree del Mediterraneo.

Il primo addomesticamento sarà ad opera degli agricoltori siriani, ma la leggenda sicuramente più affascinante circa la sua origine  ce la regala la Grecia con uno dei suoi miti. L’olivo sarebbe infatti un regalo di Atena, la dea del sapere e della saggezza. Un regalo che viene preferito al regalo offerto da Poseidone, il dio del mare. Poseidone offriva una fonte di acqua salata e un cavallo da battaglia, quindi un simbolo di guerra. Atena invece offre un simbolo legato al nutrimento, alla terra, alla vita, quindi alla pace. E questo simbolo l’olivo lo porta da sempre. Lo porta ancor oggi perfino in Palestina dove gli olivi palestinesi distrutti dal giorno dell’auto-proclamazione dello Stato di Israele ad oggi pare si aggirino sui 3, forse 4 milioni.

Chiunque abbia avuto a che fare con un oliveto, anche piccolo, può capire il rapporto che s’instaura tra questi alberi e chi li coltiva, e  quindi può capire appieno il dolore provato da chi ha visto mutilare, estirpare o abbattere queste piante che tuttora sono per ogni palestinese il  simbolo dell’attaccamento alla terra e della sua sacralità. L’olivo è stato cantato, illustrato, coltivato, amato e, per quanto possibile, protetto fino a diventare l’albero simbolo per antonomasia della resistenza.

Proprio qui, in Palestina,ci sono esemplari  pluricentenari e millenari, contorti, sofferti, ma bellissimi. Israele quelli ora non li distrugge più. Ha capito che sono una ricchezza e allora ogni tanto, in tutta impunità, ne espianta qualcuno e se lo porta via, oppure ci fa una splendida figura offrendolo in dono a qualche paese straniero, come ad esempio l’olivo centenario che fa bella mostra di sé a Roma, di fronte alle antiche colonne dei fori imperiali, con tanto di tanga in cui si legge l’omaggio di quello Stato  al popolo romano. Ma Israele ha meno di 70 anni e l’olivo donato ne ha molti di più, quindi è stato donato a Roma un albero palestinese probabilmente sottratto a dei fellain che non hanno potuto impedire l’illegale confisca.15942374_10211963817835334_1457769329_n

Ma torniamo all’albero per osservarlo dal  punto di vista botanico ed erboristico.  Sì, erboristico, perché non molti lo sanno, ma l’olivo ha delle ottime proprietà officinali.

Il suo nome scientifico è olea europaea, anche se le sue origini sono asiatiche. Ama il sole e i terreni sciolti, la sua chioma è sempreverde e proprio dalle foglie e dalle gemme si ricavavo rimedi erboristici di grande efficacia per contrastare l’ipotensione. Oltre a tinture madri, a gemmoderivati e a tutto ciò che si può acquistare in erboristeria, una preparazione officinale domestica efficace come ipotensivo ed ipoglicemico è il semplice infuso di foglie giovani. Quindici foglie in un quarto di litro d’acqua bollite per 5 minuti. Ne risulta una bevanda particolarmente amara ma estremamente efficace, utilizzabile anche come cura prolungata in quanto non ha tossicità. Due infusi al giorno aiutano il colesterolo e contrastano diabete ed ipertensione, quest’ultima considerata causa prima di ictus ed infarti.

La Palestina antica, ovvero la terra di Canaan, prima che venisse invasa dagli ebrei guidati da Giosuè, era già ricca di oliveti, tanto che lo stesso Giosuè, secondo la Bibbia, disse al suo popolo, allora ancora  formato da pastori nomadi: “vi ho offerto un paese che non avete coltivato e potete mangiare i frutti di viti e olivi che non avete piantato”.

Ma nulla è eterno e il passaggio di tanti popoli e tanti diversi dominatori su questa terra lo dimostra. L’olivo però resiste e nonostante espianti e distruzioni è ancora un simbolo per quella terra e per ogni palestinese.

Nell’antichità il suo olio è stato usato per scopi sacri oltre che per alimentazione e cura. Ungere un corpo con l’olio d’oliva significava dargli sacralità, essere introdotti in qualche modo nella sfera divina. Questo valeva per gli ebrei, tanto che la Bibbia narra di come Samuele dovrà ungere Davide su indicazione del Signore facendone il suo prescelto. Lo sarà per i cristiani, Gesù Cristo infatti è “l’unto” del Signore come attesta l’attributo nominativo derivante dal greco Kristos, cioè “unto”, ma lo era anche per gli egiziani e per i greci e per romani. Nel VII secolo d.C. anche Maometto parlerà dell’olivo come “l’albero benedetto…..il cui olio illuminerebbe anche se non toccasse fuoco” e lo farà nella surat sulla luce dove si legge che “Dio è la luce dei cieli e della terra….” .

Albero benedetto, simbolo di pace, di rigenerazione e di resistenza, albero che, parafrasando lo storico contemporaneo Fernand Braudel unisce due civiltà del Mediterraneo separatesi nel corso dei millenni per religioni, costumi e bevande, ma unite da quell’originaria coltura dell’olivo che ne ha fatto sorgere la comune civiltà, quella che, per citare un altro storico, non contemporaneo ma di 2500 anni fa, fece “emergere dalla barbarie i popoli del Mediterraneo”. Così infatti scriveva Tucidide nel V secolo a.C.

Le leggende, i miti, l’uso prezioso dei suoi frutti, usati già nella forma selvatica come attesta il più antico ritrovamento, risalente a circa 6.000 anni fa sulle coste dell’antica terra di Canaan, le coste da cui partivano i Fenici con il carico di quel che loro chiamavano “oro liqui9781784530716do”,   tutto questo infatti – per i simboli che viene ad assumere, per le leggi che sono state emanate a sua difesa già 2500 anni prima di Cristo, e per le creazioni letterarie e artistiche – unisce e trasforma la coltura dell’olivo come pianta nella cultura dell’olivo come simbolo identitario di una determinata civiltà.

Non a caso il più grande poeta palestinese, Mahmoud Darwish, intitolerà proprio  “Foglie d’ulivo” la sua prima raccolta di poesie e molti anni dopo definirà il suo sogno di libertà per il popolo palestinese
come un’immagine che sorge da un sasso circondato da due ramoscelli d’olivo.

Patrizia Cecconi
29 Novembre 2016

Come i cipressi di Betlemme.

La punta va a toccare il cielo e le radici sprofondano nell’Ade, unendo eternamente la morte alla vita come avviene per ogni figura che vivrà per sempre nel ricordo di chi resta.  Che la tua anima riposi in pace, monsignor Capucci, mentre il tuo ricordo resterà con noi.15879256_10211910369779166_1687576595_n

 

E qui, in zuhurfilistin, cioè tra i fiori di Palestina credo sia giusto lasciare un omaggio a monsignor Capucci. Siriano, nato nella bellissima e martoriata Aleppo e votatosi alla causa palestinese da sempre.  Potrei scegliere un albero da dedicargli
e parlare di lui attraverso le sue foglie ma non lo farò. Preferisco un omaggio diretto e immediato perché per questo grande vecchio uomo non provavo solo immensa stima ma anche un grande affetto.

Non metto le mie foto accanto a lui perché mi sembrerebbe quasi di usare la sua immagine per ingrandire la mia. Neanche potrò andare alla funzione religiosa che lo ricorderà, ma sarà solo l’assenza di un corpo in mezzo alle centinaia, forse migliaia che saranno presenti. Io ci sarò da lontano e mi commuoverò pensando a tutte le volte che col pollice mi benediva facendomi la croce sulla fronte e mi diceva “cara, grazie ecc. ecc.”. Lui che diceva grazie a me! Incredibile! Una volta, qualche anno fa, avevo provato a dirgli che sono atea, ma lui mi rispose che a Dio non importava, fece una risata forte e mi benedì lo stesso. Da allora mi sono sempre presa la benedizione in silenzio e con un sorriso. Mai discutere con chi ha una convinzione forte come la tua ma contraria, non serve. Riduce il tempo destinato a fare cose più utili!

Fino a quando non è scoppiata la tragedia siriana, come lui stesso la chiamava, monsignor Capucci era amato e stimato da tutto il movimento pro-Palestina. Ma la “tragedia siriana” ha frammentato il movimento e per alcuni monsignor Capucci ha perso l’autorevolezza che gli spettava e che gli spetterà anche quando le sue ossa saranno diventate polvere.

Fino alle fine ha mantenuto la sua lucidità e non si è lasciato tirare la tonaca da chi voleva, sebbene in buonafede e vicino alle sue idee, “utilizzarlo” per mettere il suo peso sul piatto della bilancia siriana. La sua voce e le sue mani ormai erano tremanti, ma le sue analisi politiche precise e la sua volontà assolutamente ferma. Ad una parte di filo-palestinesi, quelli che hanno scelto di schierarsi con i cosiddetti ribelli, le sue idee non piacevano e qualche volta hanno scritto cose molto pesanti. Ma l’arcivescovo di Gerusalemme in esilio era al di sopra e il suo autentico amore per la Palestina era a sua volta al di sopra e invitava ad andare avanti.

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Fino a qualche anno fa per me monsignor Capucci era “solo” il grande uomo che si schierava per la giustizia come elemento indispensabile alla pace, e lui alla pace – quella giusta – mirava.

Quando nel 1974 venne arrestato perché nel suo portabagagli c’erano armi per la resistenza palestinese fu facile per i media (più o meno, ma sempre filo-israeliani) definirlo terrorista e amico dei terroristi. Erano i media dalla memoria corta e dall’interpretazione del diritto debole a dire così. Lo fanno ancora oggi. Del resto è facile definire terroristi e chiudere la questione coloro che si battono, senza avere un esercito, per liberare il proprio popolo dall’occupazione militare di eserciti ben riforniti.

Quando venne arrestato io avevo cominciato da poco a occuparmi di Palestina. Erano anni magici gli anni “70. Allora si credeva davvero che ogni lotta sarebbe stata vincente se il popolo l’avesse abbracciata con consapevolezza come aveva fatto per il Vietnam. Si pensava fosse solo questione di tempo. Non di molto tempo. Per monsignor Capucci si levarono tante voci a chiederne la liberazione. Anche se la narrazione israeliana ha sempre beneficiato della menzogna ben confezionata, erano anni in cui il popolo palestinese veniva percepito per quel che era: un popolo privato delle sue case, della sua terra e infine schiacciato dall’occupazione militare. Un popolo che, anche per il diritto internazionale, aveva ed ha il sacrosanto diritto a difendersi.

Dopo qualche anno Capucci venne liberato grazie alla mediazione del papa Paolo VI e condannato all’esilio. Io personalmente non lo conoscevo ancora. La prima volta che parlai con lui vis à vis deve essere stato una quindicina di anni fa.

Ricordo perfettamente il luogo e il momento dell’incontro. Lui aveva terminato un bellissimo discorso  e  aveva concluso ripetendo quello che era un po’ il leit motif dei suoi interventi e cioè qualcosa del tipo “io sono un uomo qualunque, rispetto il volere di Dio, è Lui che mi ha dato il compito di lottare contro il male e l’ingiustizia. Un giorno tornerò nella mia Gerusalemme”.

La sua Gerusalemme, invece, l’arcivescovo melchita non l’avrebbe più rivista.

A Ramallah, presso la casa delle “sorelle melchite” che vendono i più bei ricami tradizionali delle donne palestinesi, mi chiedevano sempre di lui e a volte mi davano dei ricami da portargli. Una frase ricorrente, detta senza convinzione ma come buon auspicio era sempre questa “il più bel regalo per noi sarebbe avere di nuovo qui monsignor Capucci, prova a portarcelo!”. L’ultima volta l’ha ripetuta anche abuna Giulio il quale, per il poco che lo conosco e per i discorsi fatti a quattr’occhi circa la situazione attuale, mi sembra appartenere alla stessa pasta di monsignore.

Ora purtroppo non lo aspetteranno più.15823581_10211880283627031_6758765518704702130_n

Sui nostri social sono apparse tante foto e tanti ricordi, stralci dei suoi discorsi e delle sue lettere. Parole di stima e di affetto. Poi qualcuno ha anche voluto ferire la sua immagine perché non ha condiviso le sue scelte circa la Siria. Poco male, immagino il viso di questo vecchio uomo, benevolo, un po’ ironico e un po’ severo e vedo il suo modo di strizzare gli occhi, fare un gesto con la mano e con la testa come a mandar via un soffio di fumo e dire, col suo accento di antico straniero: “va bene, va bene, non farci caso, loro credono così, noi intanto cerchiamo la pace e andiamo avanti”.

Cerchiamo la pace e andiamo avanti. E la pace non si cerca piegando la schiena all’oppressore, questo lo sapeva bene l’arcivescovo di Gerusalemme e infatti non l’ha mai piegata. Applicava il Vangelo sostenendo i deboli contro i potenti e sapeva che i mercanti dal tempio si cacciano con la frusta e non con gli inchini.

Ricordo un suo intervento a piazza del Popolo un po’ di anni fa, quando salutò dicendo “intifada fino alla vittoria”. Il giorno seguente giornali e giornaletti filoisraeliani si scatenarono contro il prelato che “inneggiava al terrorismo” ignari del fatto che intifada significa rivolta e che la rivolta contro l’oppressore è un diritto irrinunciabile non solo a livello morale, ma anche a livello di legalità internazionale, basterebbe leggersi la IV Convenzione di Ginevra!

Sì, abuna Hilarion, intifada fino alla vittoria! e visto che questo ricordo lo pubblico nel blog “fiori di Palestina” devo proprio cercare un fiore o un albero cui legarlo. Non per parlare di te attraverso l’albero, solo per legarlo al tuo ricordo.

Scelgo uno degli alberi che affacciano sul sagrato della Natività, a Betlemme, il cipresso.  Lo scelgo perché è il simbolo dell’eternità, così almeno secondo il mito greco che trasformò il principe Cyparisso in questo albero dall’assoluta verticalità. La punta va a toccare il cielo e le radici sprofondano nell’Ade, unendo eternamente la morte alla vita come avviene per ogni figura che vivrà per sempre nel ricordo di chi resta.

E prossimamente, per Territorio e identità, scriverò un articolo sui cipressi palestinesi. Che la tua anima riposi in pace, monsignor Capucci, mentre il tuo ricordo resterà con noi.

Patrizia Cecconi

4 gennaio 2017