Come i cipressi di Betlemme.

La punta va a toccare il cielo e le radici sprofondano nell’Ade, unendo eternamente la morte alla vita come avviene per ogni figura che vivrà per sempre nel ricordo di chi resta.  Che la tua anima riposi in pace, monsignor Capucci, mentre il tuo ricordo resterà con noi.15879256_10211910369779166_1687576595_n

 

E qui, in zuhurfilistin, cioè tra i fiori di Palestina credo sia giusto lasciare un omaggio a monsignor Capucci. Siriano, nato nella bellissima e martoriata Aleppo e votatosi alla causa palestinese da sempre.  Potrei scegliere un albero da dedicargli
e parlare di lui attraverso le sue foglie ma non lo farò. Preferisco un omaggio diretto e immediato perché per questo grande vecchio uomo non provavo solo immensa stima ma anche un grande affetto.

Non metto le mie foto accanto a lui perché mi sembrerebbe quasi di usare la sua immagine per ingrandire la mia. Neanche potrò andare alla funzione religiosa che lo ricorderà, ma sarà solo l’assenza di un corpo in mezzo alle centinaia, forse migliaia che saranno presenti. Io ci sarò da lontano e mi commuoverò pensando a tutte le volte che col pollice mi benediva facendomi la croce sulla fronte e mi diceva “cara, grazie ecc. ecc.”. Lui che diceva grazie a me! Incredibile! Una volta, qualche anno fa, avevo provato a dirgli che sono atea, ma lui mi rispose che a Dio non importava, fece una risata forte e mi benedì lo stesso. Da allora mi sono sempre presa la benedizione in silenzio e con un sorriso. Mai discutere con chi ha una convinzione forte come la tua ma contraria, non serve. Riduce il tempo destinato a fare cose più utili!

Fino a quando non è scoppiata la tragedia siriana, come lui stesso la chiamava, monsignor Capucci era amato e stimato da tutto il movimento pro-Palestina. Ma la “tragedia siriana” ha frammentato il movimento e per alcuni monsignor Capucci ha perso l’autorevolezza che gli spettava e che gli spetterà anche quando le sue ossa saranno diventate polvere.

Fino alle fine ha mantenuto la sua lucidità e non si è lasciato tirare la tonaca da chi voleva, sebbene in buonafede e vicino alle sue idee, “utilizzarlo” per mettere il suo peso sul piatto della bilancia siriana. La sua voce e le sue mani ormai erano tremanti, ma le sue analisi politiche precise e la sua volontà assolutamente ferma. Ad una parte di filo-palestinesi, quelli che hanno scelto di schierarsi con i cosiddetti ribelli, le sue idee non piacevano e qualche volta hanno scritto cose molto pesanti. Ma l’arcivescovo di Gerusalemme in esilio era al di sopra e il suo autentico amore per la Palestina era a sua volta al di sopra e invitava ad andare avanti.

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Fino a qualche anno fa per me monsignor Capucci era “solo” il grande uomo che si schierava per la giustizia come elemento indispensabile alla pace, e lui alla pace – quella giusta – mirava.

Quando nel 1974 venne arrestato perché nel suo portabagagli c’erano armi per la resistenza palestinese fu facile per i media (più o meno, ma sempre filo-israeliani) definirlo terrorista e amico dei terroristi. Erano i media dalla memoria corta e dall’interpretazione del diritto debole a dire così. Lo fanno ancora oggi. Del resto è facile definire terroristi e chiudere la questione coloro che si battono, senza avere un esercito, per liberare il proprio popolo dall’occupazione militare di eserciti ben riforniti.

Quando venne arrestato io avevo cominciato da poco a occuparmi di Palestina. Erano anni magici gli anni “70. Allora si credeva davvero che ogni lotta sarebbe stata vincente se il popolo l’avesse abbracciata con consapevolezza come aveva fatto per il Vietnam. Si pensava fosse solo questione di tempo. Non di molto tempo. Per monsignor Capucci si levarono tante voci a chiederne la liberazione. Anche se la narrazione israeliana ha sempre beneficiato della menzogna ben confezionata, erano anni in cui il popolo palestinese veniva percepito per quel che era: un popolo privato delle sue case, della sua terra e infine schiacciato dall’occupazione militare. Un popolo che, anche per il diritto internazionale, aveva ed ha il sacrosanto diritto a difendersi.

Dopo qualche anno Capucci venne liberato grazie alla mediazione del papa Paolo VI e condannato all’esilio. Io personalmente non lo conoscevo ancora. La prima volta che parlai con lui vis à vis deve essere stato una quindicina di anni fa.

Ricordo perfettamente il luogo e il momento dell’incontro. Lui aveva terminato un bellissimo discorso  e  aveva concluso ripetendo quello che era un po’ il leit motif dei suoi interventi e cioè qualcosa del tipo “io sono un uomo qualunque, rispetto il volere di Dio, è Lui che mi ha dato il compito di lottare contro il male e l’ingiustizia. Un giorno tornerò nella mia Gerusalemme”.

La sua Gerusalemme, invece, l’arcivescovo melchita non l’avrebbe più rivista.

A Ramallah, presso la casa delle “sorelle melchite” che vendono i più bei ricami tradizionali delle donne palestinesi, mi chiedevano sempre di lui e a volte mi davano dei ricami da portargli. Una frase ricorrente, detta senza convinzione ma come buon auspicio era sempre questa “il più bel regalo per noi sarebbe avere di nuovo qui monsignor Capucci, prova a portarcelo!”. L’ultima volta l’ha ripetuta anche abuna Giulio il quale, per il poco che lo conosco e per i discorsi fatti a quattr’occhi circa la situazione attuale, mi sembra appartenere alla stessa pasta di monsignore.

Ora purtroppo non lo aspetteranno più.15823581_10211880283627031_6758765518704702130_n

Sui nostri social sono apparse tante foto e tanti ricordi, stralci dei suoi discorsi e delle sue lettere. Parole di stima e di affetto. Poi qualcuno ha anche voluto ferire la sua immagine perché non ha condiviso le sue scelte circa la Siria. Poco male, immagino il viso di questo vecchio uomo, benevolo, un po’ ironico e un po’ severo e vedo il suo modo di strizzare gli occhi, fare un gesto con la mano e con la testa come a mandar via un soffio di fumo e dire, col suo accento di antico straniero: “va bene, va bene, non farci caso, loro credono così, noi intanto cerchiamo la pace e andiamo avanti”.

Cerchiamo la pace e andiamo avanti. E la pace non si cerca piegando la schiena all’oppressore, questo lo sapeva bene l’arcivescovo di Gerusalemme e infatti non l’ha mai piegata. Applicava il Vangelo sostenendo i deboli contro i potenti e sapeva che i mercanti dal tempio si cacciano con la frusta e non con gli inchini.

Ricordo un suo intervento a piazza del Popolo un po’ di anni fa, quando salutò dicendo “intifada fino alla vittoria”. Il giorno seguente giornali e giornaletti filoisraeliani si scatenarono contro il prelato che “inneggiava al terrorismo” ignari del fatto che intifada significa rivolta e che la rivolta contro l’oppressore è un diritto irrinunciabile non solo a livello morale, ma anche a livello di legalità internazionale, basterebbe leggersi la IV Convenzione di Ginevra!

Sì, abuna Hilarion, intifada fino alla vittoria! e visto che questo ricordo lo pubblico nel blog “fiori di Palestina” devo proprio cercare un fiore o un albero cui legarlo. Non per parlare di te attraverso l’albero, solo per legarlo al tuo ricordo.

Scelgo uno degli alberi che affacciano sul sagrato della Natività, a Betlemme, il cipresso.  Lo scelgo perché è il simbolo dell’eternità, così almeno secondo il mito greco che trasformò il principe Cyparisso in questo albero dall’assoluta verticalità. La punta va a toccare il cielo e le radici sprofondano nell’Ade, unendo eternamente la morte alla vita come avviene per ogni figura che vivrà per sempre nel ricordo di chi resta.

E prossimamente, per Territorio e identità, scriverò un articolo sui cipressi palestinesi. Che la tua anima riposi in pace, monsignor Capucci, mentre il tuo ricordo resterà con noi.

Patrizia Cecconi

4 gennaio 2017

AKUB, IL “CARDO SELVATICO” DEL MEDIO ORIENTE

Nelle zone semi-aride del Medio Oriente, dopo le piogge autunnali, spunta una pianta della famiglia delle asteracee. E’ una famiglia ricca, quella delle asteracee, i botanici hanno classificato 23.000 specie raccolte sotto 1500 generi appartenenti a questa famiglia il cui  nome deriva dalla forma del fiore. Sarebbe meglio dire dell’infiorescenza perché, in realtà, quello che sembra un unico fiore altro non è che l’insieme di moltissimi piccoli fiori che hanno solo la forma di petali ma in realtà sono singole individualità sorgenti dalla stessa base e nutrite dalla stessa linfa. Un po’ come un popolo originario dello stesso territorio e nutrito della stessa cultura                                                    gundelia

La famiglia delle asteracee, proprio per questa sua caratteristica di raccogliere un “popolo” di piccoli fiori in un unico insieme, si chiama anche delle “composite”, e tra i vari generi che la compongono c’è anche il genere Gundelia di cui consideriamo la specie tourneforti , ovvero, in arabo, l’akub.

La Gundelia tourneforti fino al 1998 non creava interesse in Occidente, mentre in Medio Oriente e in particolare in tutta la Palestina storica, era già da millenni una pianta apprezzata e molto utilizzata. Nel ”98 è salita agli onori della cronaca anche in Occidente  perché  alcuni studiosi  hanno rinvenuto il suo polline nella Sacra Sindone, lasciando così supporre che i soldati romani, 1981 anni fa, si divertirono a confezionare la corona di spine con cui avrebbero “incoronato” Gesù prima della crocifissione, come ultimo dileggio verso l’uomo che aveva messo seriamente in discussione il potere, provando a cambiare i rapporti tra gli umani in nome di un’uguaglianza di dignità che ancora oggi non è data per scontata.

Comunemente la Gundelia viene chiamata “cardo selvatico” per le sue spine e per l’oggettiva somiglianza ad altre  specie del genere Carduus. Seguiterò anch’io a chiamarla cardo selvatico, come ho imparato a fare nel suq di Betlemme la scorsa primavera.

Seguiterò a chiamarla cardo selvatico anche pensando a una delle tante leggende che la letteratura classica ci racconta per spiegare la nascita di una specie vegetale: quella del dolore che spuntò dalla Terra per la morte del giovane Dafni, e che sembra adattarsi perfettamente all’episodio – non leggendario ma tragicamente reale – di Yusef Abu Aker, un ragazzino di 14 anni, che verso le 7 di un mattino di marzo, in un villaggio nei pressi di AlKhalil (Hebron), venne ucciso da un soldato dell’IOF (l’esercito di occupazione) mentre raccoglieva gli akub prima di andare a scuola.

Nella leggenda antica fu il  pianto di Venere o – a seconda delle versioni – di Diana o di Ermes, ad accompagnare la morte del giovane Dafni, e si racconta che la Terra accolse con tanto dolore il corpo del ragazzo, che trasformò le lacrime in piante dalle foglie spinose come l’ingiustizia della sua morte.

E’ commovente vedere come nella letteratura antica il dolore, l’angoscia, l’ingiustizia vengano affidati al regno degli dèi i quali,  reimpastando i sentimenti umani con i figli della terra, offrono consolazione alla morte e restituiscono simbolicamente  la vita per tutti i secoli  di cui è capace la memoria.

Ma Yusef Abu Aker, il giovane raccoglitore di akub, non avrà cantori greci o latini a ricordarlo, e il suo nome andrà a confondersi con quello delle centinaia di bambini che in questi giorni l’IOF ha ucciso a Gaza, e di quelle altre centinaia che ha ucciso nelle aggressioni precedenti, e alle decine e decine che uccide in Cisgiordania in uno stillicidio insopportabile che richiederebbe tutti gli dèi dell’Olimpo per avere un pizzico di consolazione e tutte le piante della Palestina per cantarne la memoria.

Ma torniamo alla Gundelia e vediamola da vicino, tanto più che è una delle poche specie che non crescono spontaneamente sulla nostra sponda del Mediterraneo.

La si può vedere andando in Palestina, ma solo dall’autunno alla primavera perché poi si secca, si stacca dalla radice e vola via, disperdendo nel vento i suoi semi che raggiungono distanze anche di decine e decine di chilometri e portano lontano, dovunque ci sia il terreno adatto al loro attecchimento, nuove piante che offriranno il loro messaggio e i loro frutti a chi continuerà la tradizione della raccolta per scopi fitoterapici o per preparare l’antica ricetta palestinese dell’akub cucinato con carne macinata, limone e yogurt[1].

                                                              gundelia cucinata

In tutti i suq palestinesi, in primavera, si trovano cesti di questi cardi, solitamente venduti da donne sedute a terra che li preparano al momento, despinandoli prima di venderli. La raccolta non frutta moltissimo e non può essere considerata unica fonte di reddito, ma alcuni ristoranti a Gerusalemme ovest, avendo compreso l’importanza di fare “propria” una ricetta tipicamente palestinese, ne stanno facendo un piatto “israeliano” per turisti curiosi e poco informati.

Vediamo insieme come si presenta, in modo che chi si trovi in Palestina, o in Giordania, o nei paesi limitrofi in quel periodo possa riconoscerla. La pianta può raggiungere anche gli 80-100 cm d’altezza, ma spesso la si trova non più alta di 20-30 cm. Le sue foglie sono molto spinose e le infiorescenze, se non sono state recise per essere utilizzate prima della fioritura, sono composte da fiori tubulosi di colore biancastro avvolte in brattee di tipo squamoso. Anche le foglie e perfino i semi, volendo, hanno un uso alimentare, questi ultimi possono essere tostati e usati come caffè.

Ma la Gundelia ha anche un uso medicinale. La medicina popolare è un altro aspetto di quella cultura che si lega all’identità di un popolo, e le piante ne sono l’elemento principe. Per quanto riguarda la pianta in questione, essa viene utilizzata  da oltre duemila anni come depurativo del fegato e ipoglicemizzante, quindi consigliata anche per chi soffre di diabete. Il latice che si trova nelle venature delle sue foglie viene invece usato contro le verruche, e gli impiastri di foglie e semi essiccati, contro la vitiligine. Inoltre, sempre nella medicina popolare, alla Gundelia si è attribuita nel corso dei secoli una numerosa serie di proprietà farmacologiche che oggi sono state verificate e confermate. Una delle proprietà più significative è sicuramente la ricchezza di sali minerali e di vitamine A, B e C  presenti nell’olio che si ricava dai suoi semi e che è adatto al consumo umano.  Altra proprietà significativa dal punto di vista salutistico è la capacità di ridurre grasso e colesterolo nel sangue.

Studi recenti hanno anche scoperto che la pianta può essere usata per bonificare terreni contaminati da metalli.  I suoi semi potrebbero  quindi essere dispersi sulle rovine della striscia di Gaza dopo i terribili bombardamenti che pare abbiano inquinato il suolo di pericolosi elementi. Il costo sarebbe minimo e il risultato probabilmente efficace, ma gli akub usati per disinquinare il terreno non potrebbero più essere consumati e il dolore di tanto lutto non svanirebbe certo con la bonifica del suolo.

Sarebbe comunque bello affidarsi a qualche migliaio di “cardi selvatici” per recuperare l’oltraggio immenso fatto dagli uomini alla natura e ad altri uomini. Resterebbe solo la tristezza di vedere come, nella Striscia di Gaza, una tradizione piacevole e gustosa possa trasformarsi in aiuto contro i danni di un’aggressione che poteva essere evitata se solo la giustizia internazionale avesse fatto il suo corso.

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[1] Per ogni curiosità circa la cucina palestinese, sia per la preparazione che per le origini, v. Fidaa Abuhamdya,  “fidafood.blogspot.com”