Il suo nome, “Ailanthus altissima”, significa albero del paradiso. Così infatti è chiamato nell’isola Amboyna in Indonesia, quella da cui traggono ispirazione i quadri naìf di Rousseau le Douanier, il pittore “dell’innocenza arcaica” che dipingeva occhi di tigre tra le lunghe foglie di quest’albero e le cui opere si trovano al Musée d’Orsay a Parigi.
Iniziare con un richiamo artistico è d’obbligo perché il povero ailanto in realtà, più che di apprezzamenti è oggetto di un odio feroce da parte della “corrente botanica ariana” che vorrebbe sterminarlo per la sua crescita rapida e la sua diffusione anarchica, riuscendo a farlo odiare e a farlo sentire un pericoloso clandestino capace di togliere spazio alle piante autoctone di razza pura e origine controllata e garantita.
Qui in Palestina cresce rigoglioso e bello e non è certo lui a rubare la terra, ma qualcuno potrebbe sempre addossare a lui la responsabilità di aver lasciato al popolo palestinese solo qualche chilometro di terra pietrosa rubando quella fertile. La realtà è ben diversa, ma di fantasia per giustificare oltre settant’anni di crimini ne è stata usata talmente tanta che un’affermazione del genere non sarebbe troppo diversa da quella di considerare, tanto per fare un esempio, il terrorista Begin un amante della pace e quindi premiarlo con un Nobel. Cosa realmente avvenuta nel 1978.
Tornando all’insolente ailanto, va detto che in campo artistico non solo Rousseau le Douanier lo ha magnificato, ma anche la scrittrice Betty Smith, autrice di “Un albero cresce a Brooklyn”. Dal suo libro, bellissimo, Elia Kazan trasse l’omonimo film altrettanto bello. L’albero oggetto di libro e film era proprio lui, l’odiatissimo quanto resistente ailanto. Era lui l’unico albero che in uno squallido cortile abitato da poverissimi immigrati era riuscito a rompere il cemento e a crescere altissimo trasmettendo alla piccola Francie Nolan, protagonista del romanzo, la forza per riscattarsi dalla miseria e uscire dalla sofferenza così come l’albero del paradiso usciva dal cemento e germogliava rigoglioso nonostante i tentativi di abbatterlo.
Quest’albero fino a un paio di secoli fa se ne stava tranquillo in Estremo Oriente, sua patria natale, poi, dato che poteva nutrire un baco capace di produrre seta, una seta meno preziosa di quella del bombix mori, ma pur sempre una seta, e dato che era così bello – in Cina – e di così veloce crescita, a metà 1700 venne importato in Europa e pochi anni dopo in America.
Ma i gusti cambiano e la moda non risparmia neanche i vegetali! Infatti il povero ailanto, da bellissimo esemplare esotico utilizzato per alberature stradali e per impreziosire i parchi, divenne l’albero odiato che oggi è, perfino qui in Palestina, dove la sua resistenza alle condizioni avverse dovrebbe sintonizzarsi con le condizioni di vita del popolo sotto l’occupazione.
Per dare una parvenza di razionalità all’odio verso una pianta che rende verdi i terreni resi pietraie dopo il furto d’acqua, si è diffusa anche qui la credenza, smentita dai fatti, che l’ailanto secerne una tossina capace di uccidere le altre piante. Così, la pianta pioniera che potrebbe essere utilizzata in modo razionale per alberare zone desertificate dal furto idrico, viene spesso percepita come pianta nemica.
Tuttavia, sulla strada che congiunge Gerusalemme a Hebron, diversi esemplari di ailanto fanno bella mostra di sé in alberature stradali, magari sono venuti su da soli, ma ora sono perfettamente integrati ed anche belli: sono diventati palestinesi, come il saber, la jawafa e tanti altri figli verdi della terra naturalizzati da secoli.
Invece che odiarlo e tentare, inutilmente, di estirparlo, quest’albero lo si potrebbe valorizzare e utilizzare come succede in Cina da migliaia di anni, secondo quanto attestato dal più antico dizionario cinese e da molti antichi testi di medicina che ne propinano l’uso, tuttora valido, per curare problemi diversi, dalle affezioni nervose ai problemi intestinali fino alla cura per la forfora e la caduta dei capelli. Le sue proprietà antielmintiche potrebbero essere utilizzate in modo semplice ed economico nelle zone più povere della striscia di Gaza, laddove l’inquinamento da acque reflue, regalo di Israele, rende intere famiglie vittime di infestazioni da vermi intestinali difficilmente debellabili, mentre con qualche infuso di corteccia raccolta in primavera o in autunno il problema sarebbe risolto. Ed ecco che l’odiato ailanto, capace di resistere a 40° senza acqua per lunghi periodi, capace di crescere in terreni sabbiosi e salati, in fessure di rocce e in crepe del cemento, se ben trattato e tenuto sotto un razionale controllo, potrebbe trasformarsi in un vero amico.
La sua corteccia è liscia, le sue lunghe foglie sono composite e imparipennate, formate da numerose coppie di foglioline lanceolate. Può raggiungere in pochissimi anni i 25 metri di altezza e la sua chioma, decidua, offre un buon riparo dal sole estivo. I suoi fiori hanno colore giallo dorato che vira in rosso ramato conferendo un aspetto molto bello all’albero nel periodo della fioritura che dura fino a due mesi. Chissà se tornerà il giorno in cui quest’albero potrà essere nuovamente apprezzato! In fondo non c’è niente di eterno tra i viventi, non lo sono gli imperi, non lo sono i tiranni, non lo sono neanche le occupazioni militari e forse l’ailanto, nonostante abbia il “grave difetto” di non essere un bene economico, potrebbe tornare ad essere apprezzato magari proprio a partire dagli usi officinali che la popolazione di Gaza potrebbe farne per contrastare le infestazioni di vermi dovute alla mancanza di acqua potabile e alle conseguenti condizioni igieniche causate dall’assedio israeliano.
Patrizia Cecconi